MARIA GRAZIA MINETTI. L'INDIFFERENZA DELL'ANIMA, DI L. RUSSO

Lucio Russo, L’indifferenza dell’anima, Alpes, Roma, 2024, pp. 152, € 15,00

L’indifferenza dell’anima è la riedizione (con una nuova introduzione) di un testo originariamente pubblicato nel 1988 da Borla. Questa nuova edizione riflette un pensiero evolutosi attraverso oltre vent’anni di ricerca teorica ed esperienza clinica con pazienti affetti da patologie borderline, narcisistiche o personalità melanconiche. Patologie che sono ancor più rilevanti oggi, per la presenza di uno stato indifferenziato della psiche al di fuori della rappresentabilità e del senso.
La tesi principale del libro è quella di una affettività originaria, che rappresenta un insieme di forze affettive indistinte e non rappresentabili. Questo stato atemporale e indifferenziato precede la formazione del simbolico e del tempo lineare nella psiche differenziata. L’originario non solo indica ciò che esiste prima della formazione della psiche differenziata, ma anche ciò che continua a persistere dopo tale differenziazione. Si tratta di una quantità di for­ze affettive e pulsionali slegate dalle rappresentazioni, che formano un’area comune in cui analista e paziente sono coinvolti in alcune circostanze della relazione analitica. La ricerca che l’autore conduce riguarda quin­di il modo di operare in quest’area psichica dell’indifferenziato che gene­ra relazioni simmetriche tra analista e paziente. In questa operazione Russo tenta di reintegrare la psicoanalisi nella tradizione culturale umani­stica, partendo dalla parola “anima” (Seele), usata da Freud e scelta intenzionalmente dall’autore per le sue sfumature evocative legate alla tradizione classica e per la sua indefinitezza.
Analista e paziente si trovano spesso di fronte al limite dell’irrappre­sentabile e Russo solleva la questione cruciale su come affrontare questa sfida, al di là del linguaggio, senza ridurre tutto a ciò che è noto, correndo il rischio di navigare a vista. L’autore suggerisce che il progresso nella teoria e nella clinica può avvenire solo “ignotizzando il noto”. In altre parole, nel pensiero dell’autore c’è un forte richiamo etico al metodo freudiano, che continuamente mette in discussione le scoperte fatte, non si accontenta mai dei risultati raggiunti e, soprattutto, continua a rivedere la teoria alla luce della clinica e viceversa, sapendo che non può esserci l’una senza l’altra. Il riferimento è alla “strega”, alla metapsicologia. L’autore esorta a utilizzare la metapsicologia e non ad abbandonarla, come hanno fatto molti postfreudiani. “Meta” – andare al di là – della coscienza, di ciò che è pura osservazione, utilizzando un ascolto che va oltre il discorso manifesto, e per fare ciò, cosa occorre? L’autore cita il celebre passo di Freud sulla metapsicologia: «Non si può avanzare di un passo se non speculando, teorizzando – stavo per dire fantasticando – in termini metapsicologici» (1937, 508). Non solo, Russo osserva anche che nel 1895, in una lettera a Fliess, Freud utilizzava tre termini per descrivere il lavoro del pensiero in psicoanalisi: “immaginare” (phantasieren), “tradurre” (übersetzen) e “indovinare” (erraten), e dopo molti anni, nel 1937, Freud torna a sottolineare l’importanza centrale del termine “phantasieren” nel pensiero metapsicologico. La metapsicologia, quindi, è un pensiero immaginativo che va oltre i limiti della coscienza, mettendo alla prova la conoscibilità di qualcosa che è al di fuori della coscienza. Questo già accadde con la scoperta/invenzione dell’inconscio, e portò Freud, a partire dalla rimozione originaria, a concepire un apparato psichico differenziato. Per Russo è necessario utilizzare lo stesso pensiero metapsicologico, immaginativo e visionario per riaprire la ricerca su un nuovo apparato psichico, a partire dall’inconscio non rimosso, ascoltando i pazienti e quel sentimento di assenza che spinge a pensare, inventare, amare. L’autoanalisi diventa essenziale per esplorare aree traumatiche profondamente dolorose e l’affettività originaria che trascina nell’uno/tutto, un’area dove circola un’energia slegata, senza qualità. L’autore ipotizza che Freud avesse già intuito l’esistenza di quest’area psichica non rimossa, ma l’avesse censurata per timore di critiche sulla razionalità della psicoanalisi e per timore che gli analisti fossero accusati di suggestione. Nei testi di Freud, la suggestione, il contagio mentale, la trasmissione inconscia, e l’imitazione circolano sia come intuizione sia come paura, specialmente quando si interroga sui traumi reali e sui fantasmi, o sulla fantasia investita d’affetto indistinguibile dai ricordi, o quando distingue la melanconia dal lutto, intuendo la possibile dissoluzione dell’Io. Ed è così, che la partecipazione dell’analista «al mondo interno, insignificante, confuso, e aperto al caso del paziente borderline e melanconico» non può che avvenire se non compartecipando «agli stati di indifferenza dell’anima con tutta la globalità complessa del suo apparato psichico» (10). È stato Ferenczi, citato dall’autore, a riferirsi all’analista come a colui che deve potersi mettere dal punto di vista del paziente, deve poterlo immaginare e «mettere in crisi la propria organizzazione narcisistica» (XV). Nel senso che l’analista deve mettere fra parentesi il proprio Io per fare spazio a processi psichici trasformativi soprattutto con la capacità immaginativa. Su questi aspetti particolarmente importanti l’autore torna ripetutamente, con esempi clinici, avvalendosi anche di esempi letterari e filmici molto illuminanti, in particolare nel capitolo sesto (Fantasmi melanconici) e settimo (Il diniego del tempo) a cui rimando il lettore. Per comprendere meglio a cosa si riferisce Russo con “indifferenza”, dobbiamo pensare a quei pazienti che tendono a vivere senza speranza, con forti sentimenti d’impotenza per un sentimento di assenza di un investimento verso se stessi e la realtà esterna. Pazienti che tendono all’incorporazione e al possesso mimetico dell’altro, cancellandone la soggettività, e condannandosi a vivere nell’isolamento autarchico, e nel ritiro mortifero. Una indifferenza «ai legami, alle leggi umane e ai codici comunicativi» (126) che si manifesta nella negazione delle differenze generazionali e col diniego del tempo. Un inconscio, quindi, fuori della rappresentazione e del linguaggio. È molto significativo che, riprendendo tali questioni dopo molti anni, l’autore torni a visitare i testi di Freud con cui si era confrontato allora, più che mai convinto della necessità di riconoscere ciò che della teoria freudiana dell’apparato psichico rimane valido e ciò che va messo in tensione e confronto con l’esperienza analitica più attuale legata ai pazienti extranevrotici. In particolare Russo è convinto che vi sia una compresenza nell’apparato psichico di due livelli, quello differenziato e quello indifferenziato, e che è fondamentale mettere in tensione questi due poli per la comprensione di una «compresenza paradossale dell’indifferenza mortifera e della differenza vitale» (11). La funzione dell’analisi allora, secondo l’autore, è quella di creare la rappresentazione del tempo, della distinzione fra il dentro e il fuori, tra il proprio tempo e quello dell’altro, che coincide in analisi, con la formazione dei processi simbolici e con la nascita del Terzo. Non è possibile, qui, esplorare tutte le sfaccettature del testo, che abbraccia clinica, teoria, letteratura e filosofia, confrontandosi con una vasta gamma di autori della psicoanalisi, tra cui Freud, Lacan, Bion, Klein e molti altri. Uno dei nuclei fondamentali del testo, però, è quello dell’importanza data al controtransfert e all’autoanalisi dell’analista dei cosiddetti resti non analizzati come strumento vero e proprio per avere accesso alle aree non rappresentabili. L’autore non intende il controtransfert come pura reazione al transfert del paziente, ma essenzialmente come la relazione emotiva tra analista e paziente che si produce nella situazione analitica in cui si attivano livelli simmetrici della mente che non sono riconducibili all’identificazione proiettiva perché riguardano una situazione di confusione in cui è difficile identificare il soggetto che proietta da quello bersagliato. A questo livello sarebbe più utile parlare di transfert dell’analista che si intreccia col transfert del paziente e lo strumento principale dell’analista è l’autoanalisi dei resti non analizzati. Un lavoro che riapre il transfert verso il proprio analista e il controtransfert di quest’ultimo nei suoi confronti. La parola “resti” può far pensare a qualcosa che rimane, ma è destinato a scomparire. Non è questa l’accezione utilizzata dall’autore ed i “resti” sono da intendersi come inevitabili, poiché l’inconscio non è finito ma potenzialmente infinito, perciò l’autoanalisi dei resti non analizzati, se coniugata con lo sforzo di «rendere visibili e analizzabili livelli mentali prima esclusi dalla teoria e dalla clinica psicoanalitiche» (137), diviene il motore stesso della cura.

Maria Grazia Minetti

Tratto dal n. 1/2024 della Rivista Psicoterapia Psicoanalitica su autorizzazione dell'Editore Franco Angeli

Franco Angeli Editore: Recensioni Fascicolo 1/2024

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