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Giurita Zoena e Chiara Segre dialogano sul racconto “Nedelia nello spazio”

27 gennaio 2023
Giorno della Memoria

 

“Nell’azione il bello e il bene sono uno”

Simone Weil

 

Della collana I racconti della casa editrice Salomone Belforte & C. fa parte un preziosissimo libretto, incorniciato da una copertina azzurra e blu, intitolato “Nedelia nello spazio”. Ne parlano insieme l’autrice Chiara Segre, insegnante e vicepreside presso le scuole ebraiche di Torino, e Giurita Zoena, psicoterapeuta psicoanalista e membro associato della SIPP.

GZ: Nella introduzione al tuo scritto leggiamo: “Caro lettore, che tu sia adulto o ragazzo, insegnante o studente, sappi che tra le mani non hai un racconto, ma hai un quadro, un libro di fotografie raccontato con le parole che sono però come colori [...]”. Mi viene subito in mente che questo avvertimento ci inviti a prestare molta attenzione dal momento che ci viene consegnato qualcosa di prezioso, precisamente un lavoro prezioso attraverso il quale è stato possibile trasformare immagini, forme e colori in parole parlate e pensate. Ma questo racconto che arriva da lontano come nasce?

CS: Nel dicembre del 2020 è mancata la mia nonna materna, Nedelia Tedeschi, la protagonista di questa storia. La nonna ha scritto tanto durante la sua lunga vita, libri per bambini, poesie, rubriche per “La Stampa” o “Il Messaggero”, ma chissà come mai non aveva mai pensato di mettere su carta la sua storia, che invece ai figli, ai nipoti e ai pronipoti ha sempre raccontato con delicatezza e partecipazione. La sua è la storia di una bambina di 9 anni che nel 1938 in Italia per il Decreto Regio n°1390 del 5 settembre viene espulsa da scuola in quanto ebrea a causa delle leggi razziste[1], costretta a separarsi dai propri cari e a vivere nascosta prima in una famiglia piemontese, che l’ha amorevolmente accolta, e poi in un convento di suore, che si sono occupate di lei fino alla fine della guerra. La nonna per molti anni aveva insegnato nelle scuole speciali, quando ancora esistevano per i bambini e i ragazzi con gravi difficoltà, e successivamente alle scuole ebraiche qui a Torino. Aveva preparato e raccolto nel corso degli anni molto materiale che utilizzava soprattutto quando andava nelle scuole a parlare e a rendere testimonianza di ciò che, come lei, avevano vissuto milioni di persone in quegli anni bui in Italia e in tutta l’Europa. Aveva raccolto questo materiale in un faldone, dal quale non si separava mai: anche quando molto anziana e non più lucida aveva dovuto cambiar casa, ha voluto portar con sé una vecchia valigia e il suo faldone, segno del suo legame affettivo e del suo impegno nei confronti della memoria. Dopo che è morta ho ritrovato nella sua stanza fra le sue cose il faldone pieno di documenti, scritti e testimonianze: è stato allora che ho capito che c’era un debito da saldare. Ho scritto il racconto della sua storia per renderlo un materiale didattico, molte delle parole riportate nel libro sono proprio quelle che mia nonna ha scritto in qualche appunto o in alcune delle sue poesie.

GZ: Hai parlato di materiale didattico, allora vado su un punto scomodo, il più scomodo di tutti: la Shoah raccontata ai bambini e il valore della memoria.

CS: Come molti dei figli della terza generazione sono cresciuta “a pane e Shoah”, in famiglia se ne parlava, si tramandava la memoria di ciò che era accaduto, si leggevano libri, testimonianze. Fuori invece non se ne parlava molto, come invece accade adesso. Ora i bambini certe cose non se le spiegano, non capiscono come sia possibile essere espulsi da scuola, dai giardini pubblici. Vogliono sapere, conoscere. Con il passare del tempo ci allontaniamo dalla seconda guerra mondiale, sembrano accadimenti lontani ma certi modi di essere sono esattamente dietro l’angolo. Mi sono chiesta che senso abbia ricordare e mi sono risposta che il suo valore sta soprattutto nella ricerca di quei comportamenti giusti che vanno perseguiti, lavorati, affinati. Siamo abituati ad ascoltare molte storie drammatiche, ed è giusto farlo, ma il mio intento non era rimarcare i personaggi negativi che nella storia di mia nonna hanno sicuramente giocato un ruolo centrale. Ad esempio il signore che ha venduto il mio bisnonno, il papà di Nedelia, per 5000 lire rivelando il suo nascondiglio, non l’ho quasi menzionato. Il mio bisnonno è stato deportato e non è tornato mai più dai campi di sterminio. Ribadisco che non era quello su cui volevo focalizzarmi. Volevo centrare invece la mia storia sulla giustizia e l’empatia che si possono stimolare nelle nuove generazioni. Sono centrali le figure del preside e della maestra di mia nonna, che dispiaciuti per la sua espulsione da scuola vanno a trovarla, e poi la famiglia e le suore che l’hanno protetta. Queste persone vanno valorizzate, così come i loro gesti di empatia e amorevolezza. Vedi, non c’è bisogno di dover necessariamente fare gli eroi coraggiosi, a volte basta davvero essere giusti, coltivare dei valori attraverso i quali non ci sarà neanche più bisogno di arrivare all’eroismo. Vedo che adesso ci sono tanti momenti di incontro con i giovani, anche quelli organizzati dallo Yad Vashem[2], nei quali si presta molta attenzione a non creare reazioni shockanti o negative. Per lo meno non subito Mi rendo conto che nelle scuole pubbliche certi argomenti sono affrontati in modo molto diretto, nell’ultima scuola in cui sono andata a parlare mi hanno chiesto se era vero che veniva tatuato un numero sul braccio dei prigionieri. Mentre nella nostra scuola cerchiamo sempre di essere molto più delicati, credo che non abbiamo mai raccontato esplicitamente del numero sul braccio neanche alle scuole medie. In genere per Yom haShoah[3] scegliamo un tema che poi la classe declina facendo una panoramica storica. La delicatezza va bene, ma una iperprotezione no, perché a volte i bambini possiedono già il loro modo di capire e ragionare sulle cose.

GZ: E quando invece non c’è memoria secondo te che cosa accade nella mente e nella persona?

CS: Vivere senza memoria è come vivere senza ragionare, senza pensare. Il pensiero e la ragione invece aiutano a vivere meglio. E’ come muoversi in una palla che rotola continuamente senza sosta. Come si fa a vivere senza sapere come ci si è salvati? Come ci si è comportati? Per me è difficilissimo immaginarlo. Eppure a volte succede sia a livello familiare che collettivo, ma con che cosa ti rapporti? Con una palla che non va nè su nè giù. Ho cresciuto i miei figli in modo aperto, tutti e tre hanno conosciuto mia nonna e si sono rapportati a lei e alla sua storia. Mio padre ha invitato mia figlia minore di 8 anni a leggere il “Diario” di Anne Frank, è con loro esattamente come era con me perché con i modi giusti i bambini si prendono il loro tempo per comprendere e digerire. La nonna, così come i nostri parenti romani, si sono molto dedicati alle loro storie, che erano in fondo storie di salvezza. Nedelia ci preparava la polentina che le cucinavano le suore quando ha vissuto nascosta insieme a loro, oppure ci parlava del cagnolino della famiglia che l’ha accolta. Storie di tenerezza e di empatia. So che una parte di mia nonna custodiva in sé un dolore straziante, lo so perché quel dolore lo faceva venir fuori in alcune poesie. Io in quelle poesie fatico a vedere mia nonna, però so che quella tristezza era parte di lei, del suo essere. Ti ho portato un altro libro, “Don Cirillo e il nipotino” l’ha scritto mio zio Giulio Segre. Il suo papà, mio nonno paterno, prima di scappare via ha incontrato il parroco di un paesino valdostano che ha generosamente tenuto con sé il suo bimbo per tutto il periodo della guerra presentandolo a tutti come il suo nipotino! Sua madre, anch’ella nascosta nel paesino, a volte riusciva a guardare il figlio dalla finestra. La storia incredibile è che un generale tedesco si affezionò moltissimo a mio zio perché notava una somiglianza con suo figlio che aveva dovuto lasciare in Germania per partire per la guerra. Il parroco per non destare sospetti sul bambino lasciava che gli portasse le caramelle. Ecco, mio zio prima di morire ha dovuto scriverlo, ha voluto fare memoria. E ho con me un altro libro ancora. Si tratta de “Il libro di Urania” che mia nonna ebbe in dono da suo padre: guarda quante stelle ci sono in copertina, lo conservo io adesso. Era stato cominciato da una bimba, la figlia dell’astronomo Maggini, che aveva una vera e propria passione per pianeti, stelle e universi; poi questa bambina purtroppo è morta e il papà ha continuato ciò che la sua piccolina aveva lasciato in sospeso. Ha sentito il bisogno di continuare ciò che era stato interrotto.

GZ: Mi sembra un focus interessante quello di partire dai valori da recuperare e coltivare. Anche parlare è un valore. A volte ci concentriamo sull’orrore affinché eventi così drammatici non si verifichino mai più. Però si può raggiungere lo stesso scopo valorizzando i comportamenti e le vicende legate ai Giusti[4]. Quanti ce ne sono stati! Alcuni non li conosciamo nemmeno.

CS: Certo, a volte non ci rendiamo neanche conto del motivo per cui certe persone si comportano in un certo modo, mettendo a rischio la loro stessa vita, e portando avanti ogni cosa con delicatezza e naturalezza. Mia nonna spesso si interrogava, non sapeva se al loro posto avrebbe fatto lo stesso.. Per cosa poi? Per una stretta di mano? Così come è inspiegabile che le famiglie si siano sparpagliate per salvarsi. Per me è impensabile! Con la mia famiglia cerchiamo di fare sempre tutto insieme, invece il mio bisnonno aveva capito che per salvarsi doveva sistemare ogni membro in un punto diverso perché insieme li avrebbero sicuramente presi. E inspiegabile è anche il comportamento di chi lanciava i bambini dalle feritoie dei treni pur di salvargli la vita! Che cosa scatta? Un istinto primordiale di sopravvivenza?

GZ: Sai, le stelle de “Il libro di Urania” hanno disegnato nella mia mente una risposta. I Giusti non sanno di essere giusti, lo fanno e basta, non per la stretta di mano, ma perché è così che deve essere. L’umanità si salva come specie, non come singoli individui. E credo che i Giusti, ma anche il tuo bisnonno o quelle mamme disperate che lanciavano i figli, lo avessero intuito. Hanno custodito semi. Lo hanno fatto nei modi più impensabili, anche sofferti. Ma perché hanno guardato oltre, hanno guardato alle stelle e hanno, anche solo inconsciamente, capito che dovevano proteggersi e sopravvivere come popolo, come cultura, come umanità. E’ solo così che possiamo guardare a certi gesti. Anche al bisogno di sposarsi, procreare, rimettere su una famiglia dopo la tragedia. Non per sostituire, quello mai, ma per vivere ancora e perpetrarsi anche soltanto come geni.

E’ con queste parole che Chiara e io ci salutiamo, lasciando sul tavolino le tazzine dei nostri caffe. Ed è con un interrogativo specifico che mi dirigo verso la mia macchina che mi condurrà in studio dai miei pazienti. Mi fa tremare pensare che un fatto così terribile come la Shoah sia accaduto nel cuore della civilissima Europa: il progresso, la civiltà appunto, non ci hanno tenuti al riparo dalla possibilità che un popolo si alzasse contro un altro popolo, o peggio contro un gruppo culturale in seno a se stesso. L’Europa industrializzata, colta, culla di musicisti, filosofi e poeti è stata lo scenario di un’atrocità inspiegabile.

Qual è dunque lo scopo della civiltà? Giacomo Leopardi nello “Zibaldone” (1817-1832) sosteneva che lo scopo della civilizzazione fosse quello di creare un’alleanza tra gli uomini contro la natura maligna. Più tardi Sigmund Freud (1920) ipotizzava che la civiltà potesse garantire all’essere umano un po’ di sicurezza in più in cambio di un pezzetto di felicità. Purtroppo per me, l’interrogativo resta aperto dal momento che la storia mi ha messo davanti il fallimento di questi due punti di vista.

Il trauma per mano umana è in grado di depauperare e desertificare cognitivamente e affettivamente gli esseri umani. Diverso e di gran lunga più terribile di quello causato da catastrofi accidentali o naturali, può generare preoccupanti stati dissociativi e alti livelli di disregolazione affettiva (C. Mucci, 2018). Queste considerazioni mi risuonano nella mente per tutto il pomeriggio. Oggi possiamo affermare con chiara certezza che il gesto di un uomo che annienta un altro uomo ha ripercussioni più gravi dei danni, anche mortali, che potrebbe provocare un terremoto o un’alluvione. Mi verrebbe da aggiornare Leopardi e dirgli che forse la vera matrigna non è la natura, bensì la specie umana.

Le conseguenze delle traumatizzazioni massive sono così penetranti che è possibile che nella seconda e nella terza generazione si verifichino meccanismi trasmissionali e distorsioni ripetute nella relazione con i genitori. Una trasmissione epigenetica (C. Mucci, 2008). Tanto è vero che proprio nei traumi collettivi viene inferto un duro colpo al tessuto sociale, il quale arreca danno non solo ai singoli, ma soprattutto al legame che tiene insieme gli individui. In una situazione così determinata l’io e il tu possono anche trovare il modo di sopravvivere, tuttavia è il noi a rimanere devastato. In questi casi poter elaborare il trauma è complesso perché diventa necessario lavorare anche sull’aggressività primaria sperimentata traumaticamente: essa infatti è stata incorporata nella personalità del soggetto e necessita di essere digerita tanto quanto l’evento traumatico in sé (O. Kernberg 2008).

E allora lo scambio con Chiara Segre diventa fecondo proprio per l’attenzione alle storie di salvezza, che sono, sì, storie di sopravvissuti, ma hanno con sé un portato di giustizia ed empatia in grado di risvegliare qualche mente dormiente e soprattutto di nutrire le menti dei giovani. Andare oltre l’orrore, sapendo che c’è e che va custodito, come faceva Nedelia nelle sue poesie più strazianti, significa mettergli accanto una possibilità nuova proprio attraverso i racconti e la memoria. Le parole infatti anche se avvelenate dai nemici non possono essere messe da parte perché noi siamo in grado di trasformarle e di farle diventare maledizioni oppure speranza (E. Weisell 1958). Le parole creano il legame spezzato e attaccato dal trauma: esse diventano il tessuto fertile su cui si può ricostruire il noi.

Educare le giovani generazioni significa metterle di fronte alla complessità del mondo, delle vicende umane e dei saperi: significa affinare la loro capacità di creare connessioni e non frammentazioni. I legami che tengono insieme l’io e il noi, l’individuo e la collettività, sono proprio quelli capaci di intessere relazioni e ricucire esistenze spezzate. E allora forse una risposta si affaccia sui miei dubbi: non sarà mica che lo scopo della civiltà sia quello di proteggere la specie umana, da se stessa e dalla natura, e garantire in qualche modo non solo la sopravvivenza, ma anche un’esistenza degna?

 

Bibliografia

Freud S. (1920), “Al di là del principio di piacere”. OSF 9, Boringhieri, Torino, 1981.
Morin E. (1999), “La testa ben fatta”. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2021.
Morin E. (2014), “Insegnare a vivere. Manifesto per l’educazione. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2021
Mucci C. (2008), “Il dolore estremo. Il trauma da Freud alla Shoah”. Borla, Roma, 2008.
Mucci C. (2014), “Trauma e perdono”. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.
Mucci C. (2018), “Corpi borderline”. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2020.
Natoli S. (2022), “Il posto dell’uomo nel mondo”. Feltrinelli, Milano, 2022.

 

[1] Il corsivo è mio in quanto voglio richiamare la posizione di Riccardo Calimani, che in un recente video di presentazione del suo libro “Come foglie al vento” ci ricorda con veemenza che la razza non esiste, il razzismo invece sì. Quindi le leggi del ‘38 non sono razziali bensì razziste.

[2] Ente nazionale per la memoria della Shoah di Gerusalemme.

[3] Il giorno in cui gli ebrei commemorano le vittime della Shoah e che cade il giorno ventisettesimo del mese di Nissam del calendario ebraico, diverso dal 27 gennaio giorno in cui il mondo commemora la liberazione del campo di sterminio di Auschwirz da parte dell’Armata Rossa e le vittime della Shoah.

[4] I Giusti tra le Nazioni sono coloro che hanno rischiato la loro stessa vita per salvare gli ebrei.

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