• Home
  • Cultura e Società
  • Libri e Presentazioni
  • Maurizio Russo. Memorie fluttuanti tra setting e armadietti. Su "Psicosi e Dintorni" di Orazio Costantino

Libri e Presentazioni

Cultura e Società

Maurizio Russo. Memorie fluttuanti tra setting e armadietti. Su "Psicosi e Dintorni" di Orazio Costantino

Memorie fluttuanti tra setting e armadietti

Riflessioni sul Libro Psicosi e Dintorni di Orazio Costantino

di Maurizio Russo

 

 

 

Vorrei ringraziare per l'invito ricevuto a presentare insieme con Paolo Di Benedetto il libro di (o forse su) Orazio Costantino che costituisce per me un'occasione molto emozionante.
Non si tratta di un ringraziamento formale, ma del mio profondo senso di gratitudine per avermi permesso, con quest'invito, di riavvicinare un momento molto doloroso recuperando e significando in questo modo anche il valore della mia esperienza del rapporto con Costantino. Ognuno ha il proprio modo per affrontare un lutto. Personalmente ho bisogno nell'immediato di prendere una distanza da un dolore immenso, sicuramente per proteggermi dal vuoto o dal senso di annientamento che accompagna una perdita. È stato cosi per me quando quasi tre anni fa, Orazio è venuto a mancare. Orazio Costantino ha costituito per me un Maestro, uno di quei maestri che ti insegna senza dettami, senza certezze indissolubili, uno di quei maestri, i veri maestri, che ti porgono con la delicatezza che li caratterizza un modo nuovo di pensare.
Mi manca il suo sguardo onesto e profondo, il suo portamento distinto e garbato, da gentiluomo, non mi mancano, grazie anche all'opportunità di essere qui con voi, le sue parole, i suoi insegnamenti che, insieme con lui, sono ormai uno dei miei oggetti interni buoni.
Quando, quasi vent'anni fa, conobbi Costantino ero alle prime esperienze con la terapia dei pazienti psicotici nell'ambito privato, dopo l'esperienza nel pubblico. Erano i tempi della formazione, degli sforzi nel cercare di costruirsi una propria identità individuale, oltre che condivisa. A proposito di un paziente che stavo per prendere in carico gli chiesi quale setting secondo lui sarebbe stato adeguato, se per esempio su lettino o vis a vis. Sono scolpite nella memoria le sue parole:

Il setting? Anche nell'armadietto!

Ecco, questi sono gli insegnamenti di Costantino che ti aprono la mente. Il concetto a partire da un'immagine, l'armadietto. Rappresentare e significare a partire da un oggetto. Non è in fondo questo il nucleo del lavoro con gli psicotici? E l'armadietto non è quel contenitore che si identifica anche con il suo contenuto, un po’ come il setting che non è solo la cornice, il contenitore di ciò che avviene e passa tra paziente e analista, ma è esso stesso la relazione tra analista e paziente?
Marco, al primo colloquio di consultazione al quale giunse dopo insistente e perentoria spinta dei genitori, entrò deciso, quasi sparato nella stanza d’analisi e, dopo aver effettuato con lo sguardo un rapido ma efficace studio dell’ambiente, si sedette su quella che era la mia poltrona dietro il lettino e mi invitò a sdraiarmi. In quei pochi secondi in cui fui sopraffatto dalla sorpresa e dalla paura realizzai che era opportuno che mi sedessi di fronte a lui, secondo una posizione che non fosse né oppositiva né accondiscendente, una sorta di compromesso di condivisione e fu quella la prima volta che le parole sul setting nell’armadietto mi vennero in mente. Marco ripeteva a oltranza che io non avrei potuto aiutarlo, che quello che gli era successo non era risolvibile, che d’altra parte il pensiero conseguente a quello che gli era successo non lo faceva vivere e che non avrei potuto cambiare ciò che era già successo né le sue conseguenze. Nonostante il suo parlare a raffica, non lo avvertivo minaccioso, tutt’altro. Come se quel setting rovesciato, secondo un’aspettativa preordinata, più che una provocazione, fosse un’operazione ben precisa e, tutto sommato, accomodante. Dopo un po’ di imbarazzo, infatti, ero già abituato a ascoltare all’interno di una disposizione fino a quel momento anomala. Attraverso le comunicazioni sulla mia impossibilità a aiutarlo, Marco proiettava in me la sua parte malata, la sua parte che non poteva accogliere una richiesta d’aiuto, mantenendo in sé, attraverso questa scissione, il contatto con la sua parte terapeutica, non psicotica. Il suo piazzarmi nel posto del paziente corrispondeva all’azione di quest’operazione di scissione e
proiezione che era l’unica cornice possibile, evidentemente, per poter dar spazio a una richiesta d’aiuto. Decisi di giocare questo ruolo cercando di ascoltare senza intervenire, nemmeno per le domande che solitamente pongo durante i colloqui preliminari quantomeno per una raccolta dati, allo scopo di rimandargli la dimensione di una parte malata che si ponesse nella posizione di essere accolta. Marco cercava, con gli strumenti che aveva a disposizione, di creare il setting per lo svolgimento della relazione, ma soprattutto cercava un terapeuta che accogliesse questa modalità che coincideva con la sua richiesta. Dopo due colloqui preliminari, all’inizio della terapia, Marco entrò sedendosi sulla SUA poltrona e mi disse: “Adesso puoi riprendere il TUO posto”!
Sto cercando, l’avrete capito, di riavvicinare e risignificare il mio dolore per questo lutto. Ma andiamo per gradi, tentando di seguire parallelamente le memorie fluttuanti legate ai momenti che ho personalmente condiviso con Costantino, alle tracce delle sue parole nella mia mente, alle mie esperienze professionali, che costituivano i momenti in cui le parole di Costantino udite da me allievo si presentificavano diventando pensieri guida e oggetti interni, nonché lo sviluppo del pensiero di Orazio sulla terapia della psicosi, cosi come è ben reso dal racconto del libro che ne fanno i curatori.
Anche qui, in fondo, partiamo da un lutto, quello che Racamier definiva come lutto originario. Il lutto originario, per Racamier, era da intendere come “il processo psichico fondamentale per il quale l'Io, fin dalla prima infanzia, prima ancora di emergere e fino alla morte, rinuncia al possesso totale dell'oggetto”. Con il lutto originario, il soggetto “compie il lutto di un'unione narcisistica assoluta e di una costanza dell'essere indefinita, e tramite questo lutto, che fonda le sue stesse origini, opera la scoperta dell'oggetto e del Sé” (Racamier 1993). Se questo processo non si è compiuto con la radicalità necessaria (“ferite di lutto mai aperte, mai si richiudono” - scriveva Racamier), il danno maggiore, per il bambino, è una sorta di “impasse fantasmatica”, una vera e propria agenesia delle capacità di desiderare, di immaginare e di sognare, di diventare, cioè, soggetto desiderante. La psicosi è l'espressione dell'impossibilità a esistere, di avere un'esistenza propria e un'identità definita, per l'incapacità a soffrire la tortura quotidiana della separazione dall'infinità dell'unità. Già l'uso della parola, secondo Costantino, parte da questa necessità di preservare l'unità duale materno-fetale, uso che mira non alla ricerca dei nuovi contenuti che una parola può significare, ma di una che sia onnicomprensiva, originaria di tutte le parole, una parola che non definisca, non separi, ma una parola che renda lo psicotico uguale all'oggetto, lo renda tutt'uno, lo fonda con esso (La parola e la psicosi, 2002). Il terapeuta, mi insegna - ci insegna- Costantino, "non dovrebbe sentirsi diviso fra i due modi di intendere la parola, ma avere l'una, quella per intenderci, del paziente, come sfondo dell'altra da cui quest'ultima deriva e in cui ritorna prendendo la forma per assumerne tante altre pur mantenendo l'identità originaria". A questo proposito Costantino mi ripeteva che nel nostro lavoro noi terapeuti dobbiamo ascoltare con la parte psicotica e parlare con la parte sana e che quando la relazione non procede è perché ascoltiamo con la nostra parte sana e, inevitabilmente, siamo costretti a parlare con la nostra parte psicotica. Perché Costantino sottolineava molto che la psicosi, in quanto indefinito, primitivo, uno, fuso, rappresenta una parte dell'essenza umana, dell'essere, l'indifferenziato da cui originiamo e di cui teniamo traccia e che dobbiamo utilizzare come risorsa e strumento di comprensione nel lavoro con gli psicotici. E tutto questo il Maestro lo diceva sempre con quel suo volto onesto e profondo, quel portamento distinto e garbato, da gentiluomo. Già, il corpo. Nell'articolo il Corpo nella psicosi schizofrenica (2005) l'Autore mette in guardia il terapeuta sul fatto che "l'attenzione che destina a individuare i segni negativi del comportamento e dell'organizzazione del pensiero degli schizofrenici, rischia di essere deviata da quella da destinare ai loro corpi che rappresentano alla fine la struttura portante dell'universo emozionale che essi sono portati a misconoscere e con esso lo stesso corpo che lo sostiene". Il corpo e le sue parti costituiscono i luoghi dove le emozioni vengono imbrigliate e cristallizzate, perché irrappresentabili e queste parti frammentate e proiettate, così
come gli oggetti in cui esse sono collocate, diverranno il loro luoghi di contenimento. Da questi luoghi corporei noi possiamo rilevare la posizione assunta dall'oggetto, presente o assente, nei riguardi della totalità o delle parti corporee del soggetto. Quanto di Bion ci ricorda Costantino! La depressione come luogo in cui stava un seno o un altro oggetto perduto e lo spazio come luogo in cui era solita stare la depressione o qualche emozione. In questo senso, “se è l'occhio - ci insegna con il suo garbo e il suo entusiasmo Costantino - la parte del corpo che è scissa e proiettata dentro una persona che ci guarda, esso oltre a essere un organo percettivo proiettato, rappresenta, nella sua qualità di luogo corporeo, la sede di sensazioni e emozioni riferibili alla relazione tra l'oggetto e il soggetto riguardo il suo bisogno di vedere e di conoscere". È evidente quanto nel corpo dello psicotico sia presente l'analista scisso e proiettato e quanto la comprensione delle dinamiche espresse nel corpo riflettano un aspetto transferale che deve essere utilizzato per la mappatura del mondo interno del paziente. Ecco il senso della mia memoria delle parole di Costantino, quando nelle nostre conversazioni a latere durante i convegni o gli incontri legati alla vita societaria mi diceva che possiamo fare le migliori interpretazioni e le più belle letture dl nostro lavoro con gli psicotici, ma se non abbiamo lavorato sul corpo, non abbiamo svolto il nostro compito, perché è come lavorare sul significato prescindendo dal significante.
Con Mimesi - Sulla fenomenologia del Doppio (2009) l’Autore approfondisce il concetto di unità duale materno-fetale di Hautmann, di gemello immaginario di Bion o di elemento femminile di Winnicott. “Bion descrive quest’area della mente come incapace di vivere la realtà come altra da sé, gemello immaginario, appunto. Gli oggetti esterni e interni, proprio a causa di essa, sono negati come tali e vissuti come identici al Sé, essendo il Sé. (…). La sua mancata integrazione sarebbe tale da rendere intollerabile la stessa situazione edipica e inefficace il ricorso all’uso del mezzo interpretativo”.
Nel corso di un seminario parlando a Orazio Costantino della mia difficoltà a collocare la relazione con un paziente in un setting appropriato, considerandone i limiti dei nostri incontri una volta a settimana, feci questo lapsus: “E’ come se una fosse troppo, e due poche”. Cercai di correggermi subito riposizionando il poco all’una seduta e il troppo alle due, ma Costantino mi fermò. “Stai spiegando, con il tuo lapsus, le caratteristiche di questa relazione”. L’una troppo era il senso del mio sentirmi saturato dalla fusionalità, dal sentirmi doppio o gemello immaginario del paziente, anziché Altro da lui. Allo stesso tempo avvertivo che l’essere per lui Altro era insufficiente, poco, non potendo trovare una collocazione, attraverso una terzietà, quale quella di una dimensione edipica, preclusa però per la sua intollerabilità alla mente psicotica. Questo era il senso del mio lapsus, in cui l’assenza di un pensiero riguardo la terza seduta, il terzo, non trovava collocazione, non offrendo pertanto uno spazio sufficiente per la proposizione di un’alterità. Sto parlando dell’intollerabilità della situazione edipica nello scenario psicotico, così come, con la precisione che lo caratterizzava, puntualizza Costantino.
A questo proposito il Nostro ricorda Hautmann quando scrive (1983):
L’interpretazione del materiale edipico anteriormente e indipendentemente dall’integrazione dell’area mentale corrispondente all’unità duale materno-fetale è senza esito perché manca nella mente la possibilità di entrare in contatto conoscitivo con la realtà edipica esterna e interna. Il paziente non può pensare l’Edipo, spazializzarlo e temporalizzarlo, può solo negarne l’esistenza trasformandolo in una dilatazione del Sé o far esplodere il Sé in una frammentazione per adesione ai singoli componenti della vicenda edipica.
Immaginate il mio stupore, la mia incredulità, ma anche la mia sorpresa nell’essere messo di fronte al fatto che la mia esperienza, attraverso il mio lapsus, trovasse valore e veridicità in una precisa dinamica corrispondente a un preciso meccanismo di funzionamento della mente.
Ma non è tutto. Quello che è in gioco è molto di più. Costantino andava ben oltre. Era capace di mettere in evidenza che quel lapsus esprimesse anche una chiara dinamica relazionale e di funzionamento della coppia al lavoro. L’analista che associa, che esprime lapsus e che pensa, mette in moto l’elemento conoscitivo precluso da articolare all’intollerato non pensabile. Il lapsus, in quanto inconscio dell’analista, non appartenente cioè al presunto sapere dell’analista, viene a collocarsi come il terzo che crea lo spazio per l’elemento conoscitivo, cioè l’analista come Altro da Sé, a partire dalla percezione dell’analista di essere Altro, attraverso il proprio pensiero, dal gemello immaginario del paziente. Mi riferisco a quel contemporaneo appartenere al mondo fusionale del paziente e allo stesso tempo differenziarsene. Ciò corrisponde all’osservazione che per il paziente psicotico il bisogno di contatto fusionale con l’oggetto e quella del desiderio d’oggetto devono procedere come due rette parallele senza incontrarsi mai, pena la sua personale distruzione. In questo senso il transfert psicotico di tipo imitativo – insegna Costantino - rappresenta sicuramente una difesa contro il riconoscimento della separatezza, ma anche la possibilità di un primo legame di identificazione con un oggetto.
Quella su cui Orazio Costantino pone l’attenzione- e mette in discussione - non è l’importanza della relazione analista paziente che è l’essenza stessa della psicoanalisi, ma la modalità e la qualità specifica del ruolo dell’analista in questa relazione. Ogni tentativo del terapeuta di comunicare al paziente la sua verità rimarrebbe vano se non fosse preceduto dall’attenzione al restauro nel Sé delle parti perdute e a accrescere la sua integrazione come attivazione in lui di un processo per il quale gli elementi parziali possano combinarsi in un intero. Se quest’attenzione è viva nella mente dell’analista, la relazione tra terapeuta e analista è l’area in cui avviene l’introiezione di un modello di integrazione dei propri impulsi e dell’Io, esprimendo la relazione stessa la funzione integrante e differenziante di cui lo psicotico è carente. In questo senso, e siamo nel nucleo dell’articolo di Costantino Le Costruzioni nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia, la costruzione, più che l’interpretazione si costituirebbe per il paziente come un esempio di esperienza integrativa e la complessa opera costruttiva e riorganizzativa della sua psiche si configurerà alla fine come una funzione costruttiva simbolica peculiare del processo psicoterapeutico. È quasi superfluo sottolineare quanto Freud costituisca sempre il sottosuolo portante del pensiero di Costantino.
Orazio si arrabbiava molto quando si misconoscesse il contributo di Freud alla comprensione dei meccanismi di funzionamento psicotici o, ancor di più, la profondità del suo pensiero sulla tecnica psicoanalitica nella terapia della psicosi. In Inibizione, sintomo e angoscia (1925) Freud sottolinea come l’esperienza passata, separata dal suo contesto emozionale, rimane isolata e non viene nemmeno riprodotta nel corso dell’attività del pensiero. È l’emozione presentificata nella relazione che costituisce l’elemento attivante e evocativo di un vissuto collocabile nel passato. Non è quindi importante – e qui sembra che il pensiero di Costantino continui quello di Freud – che il paziente porti i suoi ricordi perché il terapeuta faccia una ricostruzione storico-biografica della sua vita, quanto che questi faccia una costruzione del passato del paziente, confinando nella forma del ricordo quello che delle esperienze infantili, emozionalmente affini al presente, lo stesso paziente può vivere nella relazione terapeutica (2003).
In quest’ambito il terzo analitico è rappresentato nella relazione terapeutica da quelle aree indivise, co-pensate e co-create da entrambi, nel senso di non ascrivibili solo a una delle due diverse personalità che si incontrano rimanendo ognuna quel che è.
Mi vennero- mi vengono - i brividi quando per argomentare quest’aspetto nel suo scritto Attualità e tracce dell’esordio psicotico nella relazione psicoterapeutica il Maestro citò – cita - una mia esperienza clinica esposta in un articolo da me scritto con Luisa Perrone e che qui riporto.
Prima di recarmi allo studio situato nel palazzo di fronte la mia abitazione, chiedo a mia figlia di accompagnarmi per aiutarmi a portare dei libri. Allo studio avrei avuto la prima seduta con un paziente psicotico che seguivo da otto anni, seduta seguente ad una in cui il paziente aveva fatto esplicito riferimento ai sentimenti di rabbia e di dolore provati nel momento in cui
si è sentito abbandonato dal padre che, anziché proteggerlo, si dedicava al figlio della sua seconda moglie, da sempre vissuto come un rivale. Di solito esco di casa una mezz’oretta prima di iniziare lo studio, anche per evitare che pazienti che arrivino prima mi vedano uscire dalla mia abitazione. Quando usciamo di casa, ci imbattiamo in Sergej, il mio paziente che, arrivato prima, cercava di raggiungere il bar per il solito caffè. Con discrezione do un’occhiata d‘intesa a mia figlia di non accompagnarmi, faccio un cenno di saluto a Sergej e mi avvio allo studio. Alla sua ora Sergej mi raggiunge.
- Ovviamente era sua figlia – mi dice accomodandosi – le somigliava troppo. Non l’avevo mai vista nelle vesti di un padre. Qualche volta glielo avevo chiesto, se lei aveva dei figli, ma lei non mi ha mai risposto, ed ero sempre rimasto con questo interrogativo. Questa volta la somiglianza tra lei e sua figlia parla da sola ed è come se lei oggi avesse risposto si alle mie domande di qualche volta. Ma su che ci siamo lasciati la settimana scorsa? –
La seduta successiva arriva molto angosciato.
- Erano anni che non mi sentivo così. Sotto lo studio mi è sembrato di nuovo di sentire una voce che sventolava ai quattro venti che venivo da lei. Diamine, oggi lo so che cosa sono le voci. Ma se sono parti mie, cosa mi sta succedendo? Cos’è quest’inquietudine che provo oggi?
Gli rimando la questione sotto forma della domanda che lui utilizza come il gioco che condividiamo nelle nostre sedute: “dove sarà la mente, oggi?”
- Dove è la mente oggi, non lo so. So che nelle ultime sedute le parlavo di mio padre che mi abbandonava in balia dei lupi.
Gli rappresento la possibilità che l’ingresso di mia figlia nell’analisi sia stato vissuto in maniera preoccupata. Come se la risposta alle sue antiche domande data dalla sua somiglianza con me avesse introdotto una fine a un certa analisi. Come se questa fosse stata la conferma di una sua fantasia di un mio proposito di porre fine alla sua analisi, cosa che lo faceva sentire abbandonato in balia dei lupi, mentre lui deve ancora riprendere ciò che ha detto nella seduta precedente, perché l’analista, come il padre, non può abbandonarlo per andare da una altro figlio, perché ci sono ancora cose di cui deve parlare con il padre.
- Si, sua figlia - dice scaricando tutta l’angoscia con un sospiro di sollievo - . E’ stato come se lei non fosse stato più il mio analista. Come se stesse finendo la terapia. Sto incominciando ora a sentire la terapia come qualcosa di mio, come qualcosa da proteggere, perché ho ancora molte altre cose da dirle e da capire. Perché fumo, ad esempio. È una cosa stupida, il fumo non è niente, è avere una cosa in mano e basta. E allora perché fumo? E perché invece di utilizzare internet in modo più costruttivo, ancora oggi qualche volta mi collego a siti porno? Ecco queste sono cose di cui devo ancora parlare. E poi mio padre non solo mi abbandonò in mezzo ai lupi, ma mi lasciò per un altro figlio, per giunta. Si, anche per questo mi sono angosciato. È stata la stessa angoscia….. Si, ci sono ancora cose di cui devo parlare.
Costantino utilizza il riferimento a questa mia esperienza per evidenziare come l’apparato psichico inconscio formato dalla confluenza di elementi propri di ciascuna delle due soggettività funziona come un’area transizionale, introiettabile dal paziente nella qualità di uno spazio intrapsichico. Esso, con la ripresentazione del trauma nella relazione, permette la sua fantasmatizzazione, la sua interpretazione transferale, nonché la sua rappresentazione prima preclusa. Non solo. La coniugazione dell’elemento reale, nella sua dimensione della persona del terapeuta, con quello psichico, nella sua dimensione della mente che pensa se stessa e il paziente, consente di utilizzare lo strumento conoscitivo e esplorativo della relazione come funzione terapeutica laddove sono assenti, proprio come nel trattamento degli psicotici, i rappresentanti simbolici.
Nonostante l’aspetto emotivo legato alla gratitudine che provai verso il Maestro per il fatto che avesse citato l’allievo, non è questo il lavoro ci Costantino cui sono più legato.
Nell’ottobre del 2012 il Nostro mi inviò una mail con un lavoro chiedendomi che cosa ne pensassi. Lessie rilessi quel lavoro più e più volte. Dapprima tutto d’un fiato, poi con calma. A tratti capitolo per capitolo mi soffermavo sugli aspetti più semplici per coglierne poi la complessità e la ricchezza nascosti, come fosse stato un tesoro da scoprire. In altri momenti cercavo di cogliere l’insieme, una specie di significato o valore assoluto.
Il lavoro è Il buco nel cielo di carta.
Telefonai al mio maestro dicendogli che per me era il lavoro più bello tra quelli che aveva scritto. Glielo definii come il lavoro della maturità. Sentii una leggera risata e la cosa mi imbarazzò. Pensai di essere stato irriverente, considerato che la sua maturità professionale l’avesse ormai raggiunta da tempo. Mi preoccupai, quindi, di “apparare”, come diciamo dalle mie parti, di porre rimedio. Mi accorsi in quel momento che in realtà stavo cercando di esprimere il senso di qualcosa di bello e di imbarazzante ai limiti dell’inquietante. Il suo lavoro era si l’apice della sua capacità e abilità a descrivere un mondo così complesso e confuso, ma allo stesso tempo conteneva una perentorietà che mi fece pensare che quello volesse essere l’ultimo lavoro cui il Nostro, stanco anche per una lunga convalescenza, si sentisse di scrivere. Gli rappresentai così il mio timore.
“Non ti preoccupare – mi rispose col suo solito garbato affetto – ti manderò ancora un lavoro”.
Non è un caso che Il buco nel cielo di carta è il lavoro sul percorso dalla fusione alla separazione. Orazio sottolinea non solo come l’istanza fusionale costituisca il fine esistenziale di tanti pazienti, la loro dimensione ideale di vita, ma quanto questa, all’insegna dell’indifferenziato, coesisterà o meno con quanto si ritroverà nel soggetto come differenziato, in termini qualitativamente e quantitativamente diversi, a secondo dello stato di normalità o di patologia del soggetto. Ciò ha un diretto riflesso nel lavoro della coppia terapeutica, in quanto la realizzazione di questa possibile rappresentazione di un insieme differenziato-indifferenziato consentirà al terapeuta di acquisire un assetto interno più efficace nel trattamento dei casi. Per essa includerà l’istanza fusionale nell’economia del soggetto, invece di adoperarsi per escluderla attraverso operazioni di separazione che tendono a dividere i soggetti da quanto in loro è spesso ineliminabile.
Qualche mese dopo la telefonata cui facevo riferimento ricevetti per posta la stampa dell’elaborato Lucy. Breve storia del tentativo di “comunicare” al di là delle parole…, l’ultimo lavoro, inedito, cui Costantino aveva lavorato. Nel biglietto di accompagnamento mi scrisse che, a differenza dei precedenti, non me lo aveva trasmesso via mail perché non era completo, avendo intenzione di lavorarci ancora.
Mi perdonerete se conserverò per me le emozioni associate alla sua lettura, visto l’aspetto molto personale con cui volle rendere partecipe me e condividere con me questo sua comunicazione al di là delle parole.

 

Iscriviti alla nostra newsletter

*
*
* campo obbligatorio
* campo obbligatorio

s.i.p.p.

Il sito internet sippnet.it della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica rispetta le linee guida nazionali della FNOMCeO in materia di pubblicità sanitaria, secondo gli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia Medica.

Tel:
0685358650
Email:
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Indirizzo:
Via Po 102
Roma



© SippNet. P.IVA 01350831002