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Silvia Grasso. La psicopatologi clinica e il paradosso della classificazione psicoanalitica. "Pulsione ed esistenza" di Ezio Izzo

Relazione alla presentazione del libro:

Pulsione ed esistenza, di Ezio Izzo

Roma, 13 Ottobre 2017

 

 

La Psicopatologia clinica e il paradosso della classificazione Psicoanalitica

di Silvia Grasso

 

La riflessione che Ezio Izzo porta avanti, con l’ausilio di Mari Lucchi, sulla diagnosi psicoanalitica, è una questione interessante e per qualche verso indispensabile, una questione spesso erroneamente rifuggita.
La prima domanda che gli autori si pongono è quale tipo di diagnosi possa arrivare dalla psicopatologia psicoanalitica clinica e con quale finalità.
Lo psicoanalista clinico può essere definito colui che “amministra un sapere generale, facendone derivare un nuovo sapere unico per quel singolo paziente”, colui che, citando Green, compie “un tentativo di oggettivazione in un campo in cui la soggettività è primordiale” (p. 163)
Izzo indica questo come il paradosso della psicopatologia clinica analitica e non si può che essere d’accordo con lui.
Paradosso che non può essere ignorato, sgombrando il tavolo da lavoro, come se si potesse fare a meno di questo impegno: occorre sostenere una questione che pure sappiamo essere irrisolvibile e per certi verso persino difficile da sostenere, data l’irriducibile unicità di ogni essere umano.
La psicopatologia, ci ricorda Izzo, marca il confine tra terapia e conoscenza, la concettualizzazione impone una certa deformazione della pratica clinica e la pratica clinica della concettualizzazione, lasciando cadere ciò che è inessenziale, tutto quanto non sia parte vitale della terapia.
La pratica analitica viene così ad essere assimilata al dialogo maieutico, un dialogo che non si riferisce alla parola scritta ma alla parola vivente, a quella parola speciale che è sia del paziente che del terapeuta, che nasce dall’incontro e dalla relazione. Le libere associazioni, parola della seduta analitica più che del paziente, dovrebbero essere riformulate, come espressione della relazione terapeutica?
Izzo ci ricorda la condanna della scrittura che Platone nel Fedro fa pronunciare a Socrate, “veleno” per la conoscenza, per sottolineare quanto la conoscenza teorica psicoanalitica sia fondata e sostanziata nell’esperienza e dall’esperienza clinica. Rammenta l’ammonimento di Freud, simile a quello socratico, di quanto “leggere” rovini la memoria, non dia vero sapere, ingombri la mente, offuschi la visione.
Il sapere analitico è sapere teorico clinico, sapere di ssé, dell’altro e della relazione di cura, un sapere, che pur rimanendo all’interno di una cornice teorica, richiede continuamente di essere riscoperto nella storia dell’individuo singolo e del suo gruppo di appartenenza, tenendo conto di come questa scoperta si declinerà all’interno della relazione di cura.
Analogamente Hans Georg Gadamer, nel saggio Dove si nasconde la salute, preferisce riferirsi al colloquio clinico come dialogo, in omaggio a Platone e nella direzione di una scienza medica esercitata anche come arte medica e mai come scienza esatta. Indica il segreto di questo dialogo nella funzione di guida che il terapeuta dovrebbe avere per trovare la parola adatta a “risvegliare nel
paziente la propria capacità di vedere”.
La diagnosi in questa prospettiva dovrebbe essere un discorso che apre, a nuove comprensioni e possibili mutamenti, mai una definizione chiusa.
Per quel che riguarda la psicoanalisi “la parola adatta” non è scritta in nessun libro ed è tessuta nello spazio-tempo dell’incontro, retro-illuminato dai bagliori della traslazione, che potranno essere colti soltanto se la stanza d’analisi non sarà troppo illuminata da teorie troppo esatte.

Nel pregevole sforzo di contestualizzazione storica del suo discorso, Ezio Izzo ricorda come, a proposito d’interdisciplinarietà tra teoria e prassi, si debba partire da Ferenczy e dall’estrema attualità del suo discorso del 1924, scritto in collaborazione con Otto Rank: “Prospettive di sviluppo della Psicoanalisi. Reciprocità tra teoria e prassi.”. Questo il titolo nell’edizione Guaraldi (nell’edizione Boringhieri il sottotitolo cambia per diventare Sull’Interdipendenza tra teoria e pratica).
Citando direttamente Ferenczy: “È così che ci siamo infine risolti ad attribuire il ruolo princi- pale, nella tecnica analitica, al ripetere anziché al ricordare. Ciò non significa, però lasciare semplicemente che gli affetti sfumino nel “vissuto”, il procedimento consiste invece... nel permettere questi affetti e nella loro progressiva risoluzione, ovvero nel trasformare gli elementi della ripeti- zione in ricordo attuale”.
Soltanto attraverso il ripetere, nel transfert, cardine del processo trasformativo cui la terapia analitica può dare luogo, si potrà giungere al ricordare.
Ci sembra importante soffermarsi sull’aggettivo “attuale” che nella storia della psicoanalisi merita una speciale rilevanza.
La prima distinzione nosografica che Freud operò nel campo delle nevrosi, fin dal 1986, è stata proprio tra quelle che definì Neuropsicosi da difesa (isteria d’angoscia, cioè le fobie, isteria da conversione, nevrosi ossessiva) per distinguerle dalle Nevrosi attuali (nevrastenia e nevrosi d’angoscia) .
Usiamo le parole di Freud per illustrare il concetto: «“Attuali” significa che le loro cause sono puramente contemporanee e non hanno la loro origine nel passato del paziente» (OSF Vol. 2 Nota 1 p. 404).
La definizione di Ferenczy e Rank lascia intravedere una componente attuale nel ricordo, in quanto nato da una situazione “contemporanea”, costituita dal setting, di certo potentemente allusiva rispetto al passato, ma anche radicata nella relazione di cura, nell’incontro di quel paziente con quel terapeuta e dunque portatrice anche di quelle tracce di attualità.
Sembra poter intravedere un discorso sulla quota di “attualità” presente nella nevrosi di trasla- zione, quota mai del tutto eliminabile e da non dimenticare.
Si delinea nel discorso di Ferenczy, che Izzo ripropone, il peso che la persona dell’analista potrebbe avere, nel bene e nel male, nell’andamento e persino nell’esito di un trattamento analitico. Si pone con chiarezza e coraggio, considerati i tempi, la questione di quanto il narcisismo dell’analista sia implicato e sollecitato nella relazione di cura e dei possibili esiti di tutto ciò.
La lezione di Ferenczy ha insegnato a tutti gli analisti dopo di lui che quando il paziente al termine della seduta avverte una quota d’angoscia più elevata del lecito, occorrerà chiedersi se qualcosa nella relazione terapeutica non abbia eccessivamente stimolato o bloccato il flusso ideo-affettivo (per rimanere nella metafora dell’ingorgo energetico del primo Freud): se una componente attuale, attinente alla relazione terapeutica, al qui ed ora della seduta, non abbia costituito una spina irritativa.

Per non parlare dell’importanza di porre attenzione al rischio sempre presente di ritraumatizzare il paziente con un ascolto che non colga il suo linguaggio” (il riferimento ai due lin-guaggi di Ferenczy) tenendo conto dunque dei limiti, talora momentanei, talora strutturali, della persona che un analista si trova di fronte.
Ed ecco allora che l’intuito e l’esperienza psicopatologica dell’analista giocano un ruolo fondamentale, non per classificare ma per differenziare e offrire alla persona l’ascolto analitico di cui ha bisogno, promuovendo le trasformazioni possibili.
La diagnosi psicoanalitica diventa centrale, per calibrare l’ascolto e il metodo.
In questo senso Ferenczy precorre Winnicott ed entrambi ripercorrono, ampliandone di molto i confini, il discorso di Freud.
Basti come esempio del lascito enorme di Freud a tutti i post freudiani l’appunto contenuto in Risultati, idee, problemi del 1938: «“Avere” ed “essere” nel bambino. Il bambino esprime volen- tieri la relazione oggettuale mediante l’identificazione: “Io sono l’oggetto.” L’avere è tra i due successivo, dopo la perdita dell’oggetto ricade nell’essere. Prototipo: il seno. Il seno è una parte di me, io sono il seno. Solo in seguito: io ce l’ho, dunque non lo sono».
Le risonanze di questi appunti nella ricerca psicoanalitica degli autori che hanno proseguito il lavoro di Freud sono diffuse ad ampio raggio.
Per tornare al discorso di una psicopatologia analitica: quanto è importante distinguere se abbiamo davanti una persona in grado o meno di fare la differenza tra essere e/o avere l’oggetto? Sappiamo che può non essere così semplice comprenderlo al primo sguardo, dati i molteplici mascheramenti, ma che è cruciale giungere a capirlo per l’esito del trattamento.
Nella descrizione di una nosografia freudiana Ezio Izzo sceglie come vertice di riflessione il lavoro di Freud del 1931, sui tipi libidici: Erotico, Narcisistico e Ossessivo.
Nel distinguerli tra loro precisa “Questi tipi, allo stato puro, si sottraggono a stento al sospetto di essere stati escogitati dalla teoria della libido”.
Avverte che la maggior parte degli individui che incontreremo saranno riconducibili ai tipi misti erotico-ossessivo, erotico-narcisistico e narcisistico-ossessivo, ma la cosa principale da rilevare è che questa tipologia non corrisponde alla patologia.
La patologia si rivela quando l’armonia si rompe, le difese diventano inefficaci e allora ogni disposizione libidica si romperà secondo linee di frattura precise, che produrranno alcune malattie e non altre.
Linee nosografiche asciutte, un disegno scarno, il necessario per distinguere senza descrivere nel dettaglio, lasciando ampio spazio all’espressione della singolarità individuale.
La panoramica disegnata da Ezio Izzo fa saltare all’occhio quanto le nosografie psicoanalitiche più rilevanti siano scarne, profonde (non correlate a descrizioni dei comportamenti) e radicate nella relazione con l’altro: basti pensare a Winnicott, alla sua teorizzazione sul trauma e sugli individui che semplicemente “sono stati lasciati cadere” o a Pichon-Riviere la cui nosografia è fondata sulla qualità del legame, per come si esprime all’interno della relazione terapeutica (Izzo, p. 188).
In questo essere scarne, essenziali, risultano vicine, sul versante della psichiatria, alla psicopatologia clinica di derivazione fenomenologica.
Kurt Schneider riconosceva soltanto due raggruppamenti di malattie mentali: le psicosi organiche dovute a cause esogene e descrivibili sia secondo un ordinamento somatologico, relativo alle cause, organiche (particolare interessante, per gli psicoanalisti, in questa teorizzazione il corpo è considerato come il fuori) e sia attraverso un ordinamento psicologico, i sintomi, e le psicosi endogene, schizofrenia e ciclotimia, descrivibili soltanto per l’ordinamento psicologico, dei sintomi e non per quello somatologico, delle cause. Tutti gli altri quadri clinici, incluse le nevrosi, ricadono nelle Varianti abnormi dell’essere psichico (disposizioni abnormi dell’intelligenza, personalità abnormi, reazioni abnormi all’avvenimento, Erlebnis).
Una grande distanza dalla nosografia statistica attuale, tanto piena di definizioni quanto vuota di significato.
La classificazione psicoanalitica proposta da Izzo e Lucchi assume “come fondamento la libido e la sua evoluzione, comè plasmata dall’ambiente reale” Pulsione ed esistenza, appunto (p. 191). Procedendo dalla personalità alla malattia, vengono descritti i principali quadri patologici e le strutture di personalità nevrotiche o psicotiche corrispondenti.
Dovendo scegliere, per brevità d’esposizione un elemento della ricca descrizione offerta nel saggio, vorrei soffermarmi, per l’utilità clinica che ne può derivare, sulla riflessione relativa a quelle che vengono definite personalità non strutturate.
Queste astrutturazioni possono prendere la forma di organizzazioni pre-depressive/antidepressive: gli stati limite, interpretati come voce premelanconica “la instabile angosciosa condizione al limite con la patologia melanconica” (p. 219).
“Queste astrutturazioni possono mantenersi in bilico tutta la vita, raggiungendo una certa maturazione libidica e dell’Io, che però permette relazioni oggettuali soltanto di qualità anaclitica” (p. 221).
Per questa ragione il crollo depressivo è sempre in agguato, nel momento in cui “l’appoggio” viene meno, la depressione irrompe.
In queste astrutturazioni il ruolo di istanza organizzatrice è lasciato all’Ideale dell’Io, vergogna, rabbia, angoscia di perdere l’amore ideale sono gli affetti prevalenti.

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