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Giurita Zoena dialoga con Luigi Corallo su “Il Crogiuolo” di Arthur Miller

La nuova stagione del Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale è in programma al Teatro Carignano con il debutto de “Il crogiuolo” di Arthur Miller, per la regia di Filippo Dini, in scena dal 3 al 23 ottobre 2022. Del dramma milleriano in quattro atti ne parlano insieme Giurita Zoena, psicologa-psicoterapeuta psicoanalitica, membro associato della SIPP, e Pierluigi Corallo, attore diplomato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, interprete di numerosi ruoli teatrali e televisivi, che ha lavorato con importanti registi quali Ronconi, Proietti, Risi, Özpetek, Battiato, Rubini, e vincitore del premio Wanda Capodaglio nel 1999.

G. Zoena: Mi sarebbe piaciuto fare questa conversazione di persona e dopo aver visto lo spettacolo, ma, ahimè, il Covid mi trattiene in casa. Per adesso devo accontentarmi del telefono e rimanere in attesa di poter venire a teatro quanto prima. Ricordo di averti visto l’ultima volta recitare al Teatro Stabile di Torino in “6 bianca”, la prima serie teatrale. Era il 2014. Ora sei di nuovo a Torino con uno spettacolo del tutto diverso, che cosa puoi dirmi a riguardo?

P. Corallo: Sono trascorsi otto anni dal 2014 e tornare a recitare per il Teatro Stabile di Torino è stato per me motivo di grande gioia. Lo spettacolo che stiamo rappresentando per la regia di Filippo Dini, che è anche nel cast degli attori, è tratto dall’omonimo dramma in quattro atti di Arthur Miller, andato in scena per la prima volta nel 1953. L’opera racconta della caccia alle streghe di Salem, una cittadina del Massachusetts (USA), iniziata nel 1692 e scatenatasi a causa della bravata di alcune ragazzine che giocavano con la magia, incuriosite dai rituali tribali della schiava Tituba, originaria delle Barbados, a servizio della famiglia del reverendo Parris. Quando vengono scoperte, proprio la figlia del reverendo a causa dello spavento perde conoscenza e rimane per alcuni giorni in stato di incoscienza, fatto questo che viene interpretato dal padre e dai concittadini come la prova di una possessione demoniaca. Inizia così a delinearsi un clima di sospetto e di accusa che in qualche modo induce le stesse ragazze a scagionarsi facendo leva proprio sulla mentalità ottusa e puritana ampiamente diffusa negli Stati Uniti in quegli anni. Bisogna considerare che in Europa la caccia alle streghe si era conclusa da moltissimo tempo ormai, ma negli Stati Uniti il puritanesimo nel XVII secolo aveva innescato certi meccanismi che in qualche modo richiamano gli aspetti integralisti ancor oggi diffusi in certi contesti politici e religiosi. Dunque le ragazzine di fronte all’accusa di aver evocato il diavolo, si scagionano accusando a loro volta altre persone di essere streghe. È in questo modo che si scatena la psicosi e la caccia alle streghe vera e propria, la quale prende la forma di questo strano gioco in cui si salva chi ammette la propria colpevolezza tacciando di stregoneria qualcun altro. Miller scrive questo testo negli anni ‘50, in piena epoca del maccartismo, movimento che si caratterizza per la persecuzione degli intellettuali di sinistra, e simbolo di un periodo di accuse calate in un’atmosfera generale di paranoia. Il maccartismo, oltre a ledere il rispetto delle libertà civili, vede instaurarsi lo stesso meccanismo secondo cui si combattevano gli avversari politici accusandoli di non essere allineati con il sistema di pensiero vigente, per cui ci si poteva salvare soltanto allineandosi appunto con il pensiero dominante oppure affrontando il patibolo. Lo spettacolo dunque parla ancora oggi alla società contemporanea perché già a partire dagli anni ‘90 si è diffusa l’abitudine di ritenere che il pensiero eterogeneo sia automaticamente un pensiero contro il sistema e non il frutto di un atteggiamento di ricerca, che si nutre anche di dubbi e interrogativi. Proprio negli ultimi tempi abbiamo assistito massicciamente a questo fenomeno per quanto concerne soprattutto le questioni legate alla pandemia e ai vaccini. In certi ambienti le domande sono state represse perché ad esse faceva seguito l’accusa di essere “contro il sistema”. Ma spesso gli interrogativi sono solo il germe di una ricerca che non si accontenta di risposte preconfezionate. E non tutti gli interrogativi corrispondono a prese di posizione ben delineate e specifiche. Invece è come se si avvertisse l’esigenza di dover necessariamente stare sotto una bandiera, per cui io stesso mi domando se il pensiero critico, l’atteggiamento critico, non vengano visti con sospetto e se le persone stesse possano farsi domande senza diventare “streghe”. Da questo punto di vista penso che siamo nuovamente in un periodo oscuro. Dopo gli anni ‘50 e il maccartismo c’è stata la rivoluzione culturale e sociale del ‘68, in cui sembrava di essersi risvegliati dall’incubo della guerra e della dittatura ma già dopo il ‘74, con il prendere piedi della società dei consumi, il capitalismo sfrenato ha preso il sopravvento, andando in un’unica direzione che non lascia scampo (Pasolini). Inizia una nuova caccia alle streghe. Ancora oggi viviamo in un periodo complesso dominato dalla pandemia e dalla guerra, in cui sussistono strani allineamenti, per motivi puramente economici, che continuano a vedere l’essere umano come un consumatore e nient’altro. Ne scaturisce il pensiero univoco che se tutto è governato dall’economia allora i conti devono tornare. Siamo di fronte ad una nuova forte demonizzazione del pensiero alternativo come se esso fosse in assoluto la rappresentazione del male, per cui chi lo porta avanti viene sistematicamente screditato. Credo che siamo in un’epoca pavida, nella quale se il problema non ci tocca da vicino, non ci esponiamo, non prendiamo posizioni dissonanti, neanche quando sarebbero strettamente necessarie. Al contrario assumiamo un pensiero preciso per averne un tornaconto personale. Ti racconto un episodio a cui ho assistito in Puglia questa estate e che là per là mi ha fatto sorridere, lasciandomi poi l’amaro in bocca: un uomo, fermatosi a fare benzina e resosi conto del prezzo salito alle stelle, ha commentato: “Glielo dessero pure il Donbass così magari risparmiamo qualcosina”.

G. Zoena: Dal tuo punto di vista l’opera, nel dramma che man man

o disvela, non fa emergere nessuna figura che riesce a guardare con distacco alla situazione che si è generata e che sta degenerando portando alla morte cittadini innocenti, proponendosi di difendere il pensiero critico e la verità? Mi sembra di ricordare che il personaggio del reverendo Hale alla fine comprende il vortice psicotico in cui Salem è finita e cerca di rimediare. Ecco, che personaggio è il reverendo Hale?

P. Corallo: È un personaggio molto controverso e per certi aspetti ambiguo. La sua vanità lo spinge a partecipare inizialmente in modo attivo alla caccia alle streghe, perché quello era il suo modo per mettersi in mostra. Il suo comportamento successivo, i suoi tentativi di rimediare, appaiono più come dettati dal bisogno di lavarsi la coscienza che non come il frutto di un ravvedimento critico rispetto al proprio atteggiamento. Tanto è vero che la sua posizione è semplicemente quella di suggerire ai condannati di “stare al gioco” per salvarsi la vita, vale a dire confessare i propri peccati, anche se si era del tutto estranei alla vicenda, pentirsi e accusare un’altra persona ancora. Ma alla fine assiste impotente alla tragedia.

G. Zoena: Ripensando alla società di oggi, che cosa davvero si può fare per disinnescare questi meccanismi in cui chi non è allineato al pensiero egemone viene in automatico isolato e messo al bando?

P. Corallo: Scrivere, pensare, parlare, fare spettacolo. Contribuire a costruire una consapevolezza e soprattutto a condividere un pensiero critico e riflessivo. Non un pensiero integralista ed egemone. Purtroppo siamo ritornati in una società in cui ci sono due schieramenti, il buio e la luce, il bianco e il nero, spesso le due parti in campo non sono equivalenti perchè una domina e l’altra soccombe a seconda del fenomeno culturale. Esiste un’apparente libertà di pensiero, ma in verità di libertà ce n’è davvero poca, bisogna conquistarla a caro prezzo e i più preferiscono abbandonarsi all’ignavia e alla codardia, esponendosi unicamente quando c’è da difendere interessi personali.

G. Zoena: Questo nostro parlare mi fa venire in mente alcune suggestioni, molte delle quali legate più strettamente agli aspetti clinici della mia professione. Penso agli adolescenti. Penso ad Arnaldo Novelletto, un autore che si è occupato molto di adolescenza, il quale metteva in evidenza il dramma che il distacco dal passato per un adolescente sovente è causa di preoccupazioni tanto quanto la conquista del futuro. La radice ebraica della parola giovinezza ha a che fare con i concetti di “risveglio” e “scuotimento”. Possiamo quindi immaginare quanto i cambiamenti della mente, del corpo, degli assetti familiari e sociali, che i ragazzi e le ragazze devono affrontare nel processo fisiologico di crescita, possono essere vissuti come eventi incontrollabili, rischiosi o addirittura mostruosi. E a questo dobbiamo aggiungere la spinta pulsionale della sessualità che irrompe nell’assetto psichico e corporeo. Se ripensiamo alle protagoniste adolescenti del dramma di Miller possiamo facilmente intuire cosa stessero simbolicamente rappresentando attraverso il gioco con la magia, con i mostri o il diavolo.

P. Corallo: Mi sembra che tu colga un aspetto molto interessante. Il nostro regista Filippo Dini pensa proprio questo, cioè che “Il crogiuolo” rappresenti il dramma dell’adolescenza e degli adolescenti. L’intera opera mette in mostra la non accettazione della “stranezza” dell’adolescenza e dei suoi turbamenti. Sia nelle sfumature che afferiscono ai processi fisiologici sia in quelle che riguardano invece aspetti di sofferenza più profonda. Negli adulti il bisogno di normalizzare è impellente.

G. Zoena: A proposito di adulti, parliamo dei personaggi che interpreti. Che adulti sono?

P. Corallo: Interpreto due personaggi cattivissimi, adulti pessimi. Thomas Putnam, insieme a sua moglie, è un uomo che non riesce a cogliere neanche lontanamente le dinamiche vissute dalle ragazzine accusate di stregoneria, così come non è capace di comprendere il loro spavento e i loro timori. È anzi tra coloro che le manipola, approfittando della situazione per arricchirsi e acquistare a poco prezzo la terra del rivale anch’egli imprigionato con l’accusa di stregoneria. Interpreto poi il giudice Hathorne, personaggio chiuso e gretto, ben lontano dall’afferrare il senso profondo della giustizia e disposto a farsi guidare dai pregiudizi e dalla corrente che tira in quel momento.

G. Zoena: Sembra che non ci sia davvero scampo né per le povere adolescenti né per gli adulti ottusi e approfittatori. Prima di concludere c’è qualcosa che ti preme dire al di là delle domande che ti ho rivolto?”

P. Corallo: Sì, una cosa ci sarebbe, e cioè che erano tanti anni che non pensavo a quanto sia importante ma anche difficile fare spettacolo quando c’è in ballo qualcosa di importante da trasmettere. Recitando ne “Il crogiuolo” mi sono reso conto che era davvero fondamentale ciò che la gente fruiva: il teatro in fondo ha una missione civile. Questa consapevolezza è un’esperienza appagante, che non cambia il mondo ma sicuramente contribuisce a influenzarlo positivamente. Non possiamo pensare che una sola azione salvi il mondo, ma che il mondo possa essere migliorato goccia dopo goccia, attraverso i contributi di ciascuno. Il teatro diventa un riferimento, e la mia speranza è quella di far parte delle forze in campo, fiducioso che siano tante.

Dopo questo scambio fruttuoso con Pierluigi Corallo la curiosità di andare a teatro e vedere lo spettacolo è stata stuzzicata ancor di più. Per una situazione molto fortunata il Covid mi ha abbandonata come ospite consentendomi di partecipare alla penultima rappresentazione de “Il crogiuolo”. In extremis, mi sono detta.

È stato emozionante vedere sotto una leggera pioggia autunnale le luci che illuminano il Teatro Carignano e la bellissima piazza antistante. Una sensazione di rinnovamento mi accompagna, unitamente a un senso di rivalsa, di avercela fatta ad essere là, circondata dai colori caldi e da una piacevole temperatura fresca che solo l’autunno sa regalare.

Varco la soglia del teatro. Con piccoli gesti rituali mostro il mio biglietto ed entro in sala: lentamente sollevo gli occhi per guardare il soffitto decorato e i palchi, li abbasso poi per dare una sbirciatina alla platea, percorrendo il corridoio centrale aiutata da un’assistente che con gentilezza mi ha indicato il mio posto. La curiosità quasi lascia spazio all’impazienza e un senso di allegro stupore accompagna l’attesa dell’apertura del sipario.

Le parole di Pierluigi Corallo riecheggiano nella mia mente. Le ritrovo nel susseguirsi delle scene, ne colgo il senso più profondo nelle battute dei personaggi, nelle loro espressioni, le sento vivere sul palcoscenico tra la scenografia scura e cangiante, tra i canti struggenti e la musica che irrompe.

Per me è sempre più chiaro che mi trovo di fronte al dramma di una comunità. Al dramma di una cittadina. Ma forse ancor di più al dramma dell’umanità intera. La recitazione delle giovani protagoniste è superba: sono nel dramma, sono loro il dramma. Mi dico che forse stanno portando nella loro interpretazione il senso intimo della frase “i peccati dei padri ricadono sui figli”, esplicitando che tutto ciò che i padri, gli anziani, la comunità di appartenenza non risolvono ricade come un macigno sulle generazioni più giovani.

Lo spettacolo mi fa assistere alla manipolazione e all’abuso psicologico e fisico delle giovani, che non possono vedere negli adulti di riferimento un punto fermo, un’ancora di salvezza e speranza. Questi ultimi, infatti, burattinai incalliti, pervertono completamente la dimensione della cura, sfruttando le sofferenze dei propri figli per averne un tornaconto. Maria Luisa Algini sostiene che ciascun figlio ha un proprio modo di entrare in possesso dell’eredità che riceve dai genitori e che tuttavia non può farla propria se prima non la trasforma. Ma quale eredità riceve un figlio se un genitore non gli insegna a vivere e anche a morire? Quanto può essere difficile in questa circostanza diventare uomo, diventare donna? Abigail, una delle giovani protagoniste, alla fine della vicenda riesce a scappare da Salem ma finisce col diventare una prostituta. “Cosa altro avrebbe potuto fare?”, commenta in mala fede uno dei personaggi. Ecco, la malafede degli adulti, che rende i loro comportamenti così ambigui, al limite tra la patologia e l’etica come direbbe Simona Argentieri, traccia il destino di Abigail, che purtroppo non può fare a meno di continuare a essere abusata e manipolata nel corpo e nella mente. Nessuna esperienza, nessun personaggio, nessuna situazione si frappone come argine, facendo sprofondare la ragazza nella solitudine e nella disperazione più buia. Di nuovo, come durante la conversazione con Pierluigi Corallo, penso che tutto sia perduto.

Mentre lo spettacolo volge al termine la commozione della scena finale inizia però a tracciare dentro di me un nuovo sentiero. Il personaggio di John Proctor si ostina a non voler rendere una falsa confessione pur di salvarsi la vita, non ci sta al gioco del reverendo Hale che propone l’ennesima menzogna, stavolta per evitare il patibolo. Nelle battute finali Proctor pensa ai suoi figli, che dopo la sua morte cresceranno, sì, senza un padre, ma con la consapevolezza che egli si è assunto le proprie responsabilità. “Mi hanno tolto la libertà, non possono togliermi però il mio nome” racchiude il desiderio di consegnare un lascito ai figli: non un padre vivo, ma il padre solido nella sua identità etica. John Proctor fa ammenda degli errori commessi, alcuni dei quali hanno avuto un notevole peso sui fatti accaduti (uno per tutti la relazione sessuale con la giovane Abigail), ma ha la forza psichica di non sentirsi né schiacciato dal senso di colpa né manovrato da una falsa possibilità di salvezza, dettata puramente da un comportamento moralmente ambiguo attraverso il quale avrebbe scagionato se stesso accusando un concittadino innocente.

Penso che sia così che i figli ricevono un’eredità. Pia De Silvestris argomenta che molte storie di sofferenza si costituiscono intorno ad un nucleo traumatico, che diventa il fondamento del modo di essere del giovane adolescente e del suo modo di porsi in relazione con il mondo. Pur tuttavia il lascito di un genitore che consegna al figlio l’identità etica del suo nome, trasmessa anche attraverso l’insegnamento del saper morire, rappresenta quell'argine che consente al nucleo traumatico di trasformarsi attraverso l’elaborazione della perdita e del lutto, e all’adolescente di costruire la propria soggettivazione tessendo la progressiva articolazione dei propri bisogni e desideri con la realtà che lo circonda. È in questo modo che il viaggio verso l’età adulta non si pone come punto di rottura bensì come prosecuzione, ampliamento e riparazione del percorso del padre o di entrambi i genitori.

Bibliografia

Algini M. L. (2003), “Il viaggio. Con i bambini nella psicoterapia.”. Borla, Milano, 2003. Argentieri S. (2010) “L’ambiguità”. Einaudi, Milano, 2010.

De Silvestris P. (2008), “La difficile identità”. Borla, Milano, 2008. Miller A. (1953), “Il crogiuolo”. Einaudi, Milano, 1964.

Novelletto A. (2009), “L’adolescente”. Astrolabio, Roma, 2009.

 

Scheda dello spettacolo teatrale

 

Giurita Zoena
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