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Salvatore Capodieci. Riconoscere l'invidia

Premessa

L’espressione “riconoscere le invidie” appare forse più appropriata per descrivere il sentimento invidioso dal momento che l’invidia, la peggiore e la più inconfessabile delle emozioni, rappresenta un vero e proprio puzzle teorico.
Definire una sola invidia è problematico perché sono tante e diverse le componenti che la caratterizzano sia sul versante dell’espressività fenomenologica (rancore, rabbia, emulazione, ammirazione, … oppure “piccola invidia”, invidia distruttiva, maligna o benigna, …) quanto su quello della dimensione in cui cercare di identificarla: sociale, intrapsichica, relazionale, religiosa, filosofica, economica, … .
Il dizionario etimologico (Cortellazzo, Zolli 1983) la definisce «sentimento di astio e di rancore per la fortuna, la felicità o le qualità altrui» e «senso di ammirazione per i beni e le qualità altrui»; deriva dal latino invidere: guardare di traverso, con occhio bieco. Il rammarico e il risentimento sono provati dall’invidioso sia che si consideri ingiustamente escluso da tali beni, sia che, già possedendoli, ne pretenda il godimento esclusivo.

 

Invidia: aspetti psicodinamici e teorie psicoanalitiche

L’invidia, quale manifestazione della distruttività primaria, è presente fin dalla nascita in ogni essere umano. È stato proprio questo suo aspetto che l’ha portata al centro dell’indagine psicoanalitica sin dai suoi esordi, anche se nel tempo è andata assumendo significati diversi. Dapprima è stata assimilata ad altri affetti a essa vicini come la gelosia e l’avidità, riconoscendone poi le differenze. L’invidia compare prima della gelosia, è sempre esperita nei confronti di un oggetto parziale e non è conseguente a una relazione triangolare; la gelosia è, invece, connessa al triangolo edipico e si sostanzia dell’odio per il rivale e dell’amore per l’oggetto del desiderio. L’avidità, che ha alla sua base l’introiezione, mira al possesso di tutto ciò che è percepito di valore nell’oggetto al di là delle proprie necessità, mentre l’invidia ha lo scopo di distruggere la bontà dell’oggetto e agisce attraverso l’identificazione proiettiva.
Una definizione generica, che può trovare d’accordo tutti gli studiosi di formazione psicoanalitica, è che si tratti di un sentimento ostile che culmina nella cattiveria e nella malizia che nasce dalla percezione della superiorità o di qualche vantaggio posseduto da un altro. La percezione cioè di una differenza: esiste una situazione nella quale alcuni hanno qualcosa e altri no.

Passando in rassegna i principali autori che si sono occupati del sentimento invidioso, si possono riconoscere le più importanti teorizzazioni che definiscono le varie forme di invidia:

a. la correlazione o meno con la differenza di genere.
Secondo Freud (1905) l’invidia è correlata in modo specifico alla differenza dei sessi: nella ragazza è l’espressione della sua umiliazione narcisistica e dei vissuti di ostilità correlati al possesso del pene da parte dei maschi.

b. la dimensione innata o secondaria.
Per la Klein l’invidia originaria è quella che si prova verso il primo oggetto d’amore, vale a dire il seno materno che nutre: il seno è buono quando dà nutrimento, cattivo quando lo nega e lo trattiene. “Ritengo che […] essa entri in azione fin dalla nascita e abbia una base costituzionale”, sostiene la Klein (1957). Joffe (1969, 533-545) sostiene, invece, che l’invidia è troppo complessa per essere primaria e richiede all’infante intenzionalità e capacità di distinguere tra sé e oggetto. Così egli conclude: «Il concetto d’invidia come energia pulsionale primaria e innata è pienamente respinto. È piuttosto un complicato atteggiamento che è parte del normale sviluppo». Secondo Joffe l’invidia è strettamente correlata alla possessività, all’aggressione e alla distruttività. La componente aggressiva e le fantasie connesse possono provenire da ogni fase dello sviluppo, non solo da quella orale. L’invidia, secondo questo autore, non può essere quindi considerata una pulsione primaria, ma secondaria; può portare a conseguenze positive e di tipo adattivo oppure alla patologia più maligna. Ha uno stretto rapporto con il narcisismo e l’autostima dell’individuo ed è in tale area e nella sua patologia che trova il suo sviluppo. Etchegoyen et al. (1987), pur trovando degna di considerazione l’idea di Racker (1957, 223-239), per cui è quasi sempre una frustrazione che dà inizio all’attacco invidioso, sostengono che l’invidia primaria va sempre differenziata dalla frustrazione dovuta all’ambiente, anche se nel materiale clinico appaiono entrambe sempre insieme. Nelle angosce di separazione è più facile attribuire l’ostilità all’assenza dell’oggetto, che riconoscere l’attacco invidioso che la sua presenza può suscitare.
In definitiva, è l’intolleranza dei rapporti oggettuali e della dipendenza infantile – lo stato narcisistico del paziente – che comporta e contiene invidia. Se questo non viene considerato e interpretato nella sua vera natura, l’invidia rimane per lo più ben difesa e nascosta.

c.  l’oggetto invidiato o su cui è diretto l’attacco invidioso (il pene, il seno, la bontà della madre, il membro di un gruppo, la capacità negativa di tolleranza, l’Io, la relazione, il desiderio proprio o dell’altro, la madre fallica, beni di cui non si conosce nemmeno la vera natura, un oggetto idealizzato).
Secondo la Klein, il seno non è invidiosamente attaccato per i suoi beni, la sua bontà, ma per la frustrazione prodotta dal tenere per sé l’ambita bontà. Il seno può dare latte e amore, ma non può dare all’infante la sua pazienza e generosità, queste le tiene per sé, e come tali non possono non suscitare Questa pazienza e generosità, vera bontà, è appunto l’aristocratica superiorità dalla quale si sente del tutto estromesso e che pertanto deve detrarre e distruggere.
Bion (1961) indica un’importante conseguenza del fenomeno invidioso anche nella dinamica di gruppo: all’interno di un tipo di gruppo particolare, che l’autore definisce “parassitario”, l’emozione dominante è proprio l’invidia e, attraverso essa, il gruppo tenta di distruggere colui che al suo interno si fa portatore della creatività e di idee nuove, personaggio che Bion definisce il “mistico”.
In “Attenzione e interpretazione” (1970) egli nota che è la capacità negativa1 di tollerare l’ignoranza e/o la frustrazione che suscita la più pungente invidia, come si può forse dire dell’“inesauribile pazienza” che M. Klein vede in prima posizione nella bontà materna.
In “Cogitations” (1992) Bion, però, si toglie l’uniforme kleiniana quando scrive:
«l’invidia fornisce un contributo alla convinzione che gli oggetti esterni siano il pensiero del paziente. Poiché non può ammettere di dipendere da un oggetto esterno, il paziente pretende di essere (per poter sfuggire, alla fin fine, al sentimento dell’invidia) come un seno che si nutre da sé, il produttore come pure il consumatore di ciò da cui dipende per questa sua vita». L’attacco invidioso non è diretto verso un oggetto o una struttura (l’Io o il seno materno) bensì alla relazione, è un “attacco al legame” che presuppone la realtà della relazione. Qui anche per Bion l’invidia è confusione/aderenza tra il mio desiderio e quello dell’altro. Il sentimento d’invidia, se guardato con attenzione, si rivela un miraggio: nell’altro – nel desiderio dell’altro – vedo un’immagine di completezza, di autosufficiente consistenza da cui io sono escluso.
Rosenfeld (1987, 47-67) distingue due parti della personalità: una in grado di tollerare la dipendenza (che definisce “Sé libidico”), l’altra, dominata dall’invidia, che è portata a negare la dipendenza e a fantasticare di possedere tutto quanto le è necessario. Alla base di ciò sta la fantasia onnipotente di possedere completamente il seno. In una situazione di questo tipo la parte distruttiva e invidiosa della personalità viene idealizzata, assume caratteri seduttivi e controlla i meccanismi psichici.
Rosenthall (1963), probabilmente l’unico junghiano che si sia occupato del problema dell’invidia, ritiene che gli invidiosi subiscano l’influsso fascinatore dell’archetipo della madre fallica, una figura bisessuale che “ha tutto”. Questa figura bisessuale farebbe parte del bagaglio fantastico dei pazienti invidiosi, che cercano di difendersi da essa attraverso il meccanismo della scissione, ma senza successo.
Lacan (1964) sostiene che «tutti sanno che l’invidia è comunemente provocata dal possesso di beni che non sarebbero, per chi invidia, di alcuna utilità, e di cui non suppone nemmeno la vera natura. È questa la vera invidia».

d. l’influenza sulla strutturazione della personalità.
Abraham considera l’invidia come un aspetto che si struttura stabilmente nel carattere permeando così di sé l’intera personalità caratterizzata dall’essere estremamente conflittuale, marcata dal narcisismo e dominata dalle pulsioni sadiche. Gli individui dotati di una simile personalità, “distruggono tutte le relazioni con l’ambiente, anzi tutta la loro vita, per l’ostinazione, l’invidia e la sopravvalutazione di sé” (Abraham 1921, 422-452).

e. l’invidia egosintonica e quella egodistonica.
In base alla sua esperienza clinica, la Spillius (1993, 1199-1212) ha trovato una reazione invidiosa che si trova virtualmente in tutti i pazienti, inconscia e relativamente lieve, un tipo di invidia che l’autrice definisce egodistonica. In questo senso, il paziente definisce l’invidia come un attacco a un oggetto buono dal quale si è dipendenti. Spillius considera quindi questo tipo di reazione invidiosa, come un’invidia “ordinaria”, inevitabile e solitamente non distruttiva.
Il secondo tipo di invidia che può essere sperimentato è – secondo la Spillius – diverso, sia qualitativamente che quantitativamente, ed è più grave e disturbante. Essa è vissuta come un torto o come ciò che l’autrice chiama anche “invidia impenitente”. I sentimenti di tipo sadomasochistico sono pertanto centrali in questa forma di invidia.

f. l’invidia riguardante un evento cognitivo o all’opposto un affetto.
Kite (2001, 1391-1404) enfatizza la sua idea di invidia che riguarda principalmente un evento cognitivo, concezione che contrasta con quella kleiniana che vede l’invidia soprattutto come un affetto che, solo successivamente, sarà correlato a una percezione. Kite successivamente descrive il carattere permanente e la patologia del superIo nella donna, che l’autrice considera come la conseguenza dell’invidia del pene nella ragazza.

g. l’invidia e il falso sé.
La relazione tra l’invidia patologica e il falso sé è maggiormente evidente nel Disturbo Narcisistico di Personalità come è stato documentato da fonti divergenti come Kohut, Kernberg e il DSM-5.

h. l’invidia intrapsichica.
Può verificarsi che l’invidia o meglio l’attacco invidioso sia sferrato da parti distruttive – la “banda criminale mafiosa” di cui parlava Rosenfeld (1972), dominata da un capo che per mantenere il potere deve controllare tutti, impedendo il rafforzamento del Sé – nei confronti di aspetti più evoluti della personalità. È il fenomeno che Racalbuto (2006) definiva “transfert intrapsichico” tra parti sane della personalità e parti contaminate del Sè.

i. l’invidia come fattore protettivo verso il montare del desiderio.
Agresta (2008) sostiene che l’invidia svolge nel contempo una funzione protettiva di uno psichismo che necessita di argini interni al montare del desiderio. Senza la mediazione dell’invidia, decade la necessaria distanza che mi separa dall’altro mantenendo la distinzione tra la mia interiorità non vista (si invidia in silenzio, nascostamente) e quella dell’altro, la quale si pone così come immagine speculare del mio desiderio. Si desidera ardentemente senza sapere con esattezza che cosa: invidiando ci orientiamo in questa mancanza.

l. invidia come aspirazione a possedere le qualità altrui.
Freud (1921), in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, sosteneva: «il maschietto manifesta un interesse particolare per il proprio padre, vorrebbe divenire ed essere come lui, sostituirlo in tutto e per tutto. Diciamolo tranquillamente, egli assume il padre come proprio ideale. Questo comportamento non ha nulla a che fare con un atteggiamento passivo o femmineo nei riguardi del padre (e del maschio in generale): esso è anzi squisitamente maschile. Si accorda benissimo con il complesso di Edipo, che contribuisce a preparare». Ecco l’origine dell’invidia come desiderio dell’altro: Freud non la nomina, ma la descrive con precisione evidenziandone anche l’aspetto funzionale (“contribuisce a preparare”). L’invidia ci guida come ciechi rabdomanti in cerca di desideri, rendendoci in questo modo umani: le nostre discordie incessanti sono il prezzo pagato per essere capaci di desiderare.

m. aspetti perversi dell’invidia.
Nonostante l’invidia faccia parte del normale corredo emotivo dell’esistenza umana e possa stimolare in modo creativo il desiderio di emulazione, quando agisce diventa un’emozione che è prevalentemente perversa.
È un vissuto che nell’esprimersi distrugge tanto l’individuo che la prova quanto gli altri. Nel sentire invidia si vuole essenzialmente quello che gli altri desiderano o possiedono: si è costantemente in balia del desiderio degli altri.
L’invidia possiede un atteggiamento ambivalente verso l’oggetto dal momento che si prova simultaneamente sia il desiderio di possederlo quanto quello di distruggerlo a dispetto del potere dell’altro. Questo altro potente è colui che possiede l’oggetto desiderato o, più correttamente, chi incarna le caratteristiche desiderate. L’altro, infatti, è invidiato soprattutto per qualcosa che lui (o lei) è e non semplicemente per cioè che lui (o lei) ha (Long 2008).

 

Il lavoro psicoterapico con l’invidia

Nell’attività psicoterapica, uno dei momenti più difficili si verifica proprio quando si tenta di interpretare l’invidia del paziente. Quest’ultimo, se si considera l’invidia un’emozione primaria, dovrà farsi carico degli impulsi ostili che non sono dovuti alla frustrazione, ma alla sua incapacità di riuscire a tollerare che l’altro possieda qualcosa di buono. Se si riesce a ottenere questo obiettivo, l’analizzando dovrà accettare che i suoi conflitti non sono solo la conseguenza del comportamento di un'altra persona, ma che dipendono da egli stesso. Il sentimento invidioso, allora, può essere causa di frustrazione nella misura in cui impedisce di ricevere ciò che è disponibile.
Il rapporto tra questi due sentimenti (invidia e frustrazione) è a “doppio binario”: la frustrazione provoca l’invidia e quest’ultima frustrazione (Etchegoyen, Lopez, Rabih 1987, 51).
I sentimenti invidiosi, pertanto, non si manifestano mai in modo diretto ed evidente, ma sono quasi sempre mascherati; per questo motivo è importante riconoscerli distinguendoli da gelosia, avidità, frustrazione e stima di sé.
Il pericolo in psicoterapia è, infatti, duplice:

  1. Non si interpreta l’invidia dopo averla identificata e, così, si fa credere al paziente di essere migliore di quanto in realtà egli sia, rischiando di scivolare verso una terapia che resterà solo di “sostegno”.
  2. Si “rimprovera” l’analizzando ritenendolo invidioso ma, in realtà, si scambia una frustrazione proveniente dall’ambiente (sociale, lavorativo o familiare) per un suo attacco

Non appare semplice individuare una terza via e questo obbliga lo psicoterapeuta ad affrontare i pericoli e le fatiche insite nel suo lavoro.
Il rifiuto delle ipotesi kleiniane e di altri studiosi, che sostengono la teoria dell’invidia primaria, impedisce al terapeuta – preoccupato di dover analizzare la frustrazione – di vedere emergere spontaneamente questo sentimento dal materiale portato in seduta dal paziente. Un errore di ugual peso si commette se si interpreta come sentimento invidioso ciò che, invece, è relativo alla frustrazione perché l’analizzando, non sentendosi compreso, accentuerà il transfert negativo verso il terapeuta. Questi sentimenti ostili de paziente potrebbero essere interpretati dallo psicoterapeuta come un attacco invidioso nei suoi confronti con il rischio di rinforzare il circolo vizioso del fraintendimento.
L’importanza di un buon trattamento psicoterapico consiste proprio, quindi, nel saper differenziare l’invidia primaria dalla frustrazione dal momento che si presentano spesso insieme.
Nell’angoscia di separazione, sostiene Etchegoyen, l’intreccio tra questi due sentimenti appare più evidente: «Il controllo onnipotente dell’oggetto salvaguarda il soggetto tanto dalla frustrazione quanto dall’invidia. Spesso l’angoscia di separazione sormonta l’invidia, perché è più facile attribuire l’ostilità al fatto che l’oggetto è assente, piuttosto che riconoscere l’attacco invidioso che la sua presenza può risvegliare». L’autore esemplifica il suo concetto dicendo che chi fa uso di stupefacenti ritiene sempre di eliminare la solitudine per mezzo della droga, ma non comprende mai che a volte egli usa la droga per eliminare la presenza e la compagnia dell’altro (Etchegoyen, Lopez, Rabih 1987, 52). Uno psicoterapeuta potrebbe ritenere che cercare di analizzare l’invidia o il transfert negativo possa aggravare il problema invece di risolverlo. Non è così! Occorre evitare di ricorrere alla logica del “non svegliare il can che dorme” perché, se l’invidia esiste, non evidenziarla e non cercare di trattarla assicura solo una transitoria diminuzione dell’ansia ma, di fatto, comporta un aumento degli effetti del suo attacco. Il paziente può essere portato a credere che, se il terapeuta non interpreta l’invidia, è perché ne ha paura. Nei casi in cui lo psicoterapeuta non sia sufficientemente abile o non lavori bene, può accadere che l’invidia non si manifesti nel corso del trattamento; un sentimento invidioso potrà essere proclamato ma, non essendo percepito, resterà sempre scisso nel mondo esterno del paziente.

L’invidia deve, quindi, essere sempre evidenziata, interpretata e analizzata ogni qual volta si presenti durante la psicoterapia senza eccessive preoccupazioni di tatto e delicatezza nei confronti dell’analizzando.
È, altresì, indispensabile contestualizzare il luogo dove si manifesta: il mondo esterno, la mente, il corpo. In certi casi è necessario smascherarla e allora bisogna individuare le opportune strategie che ne facilitino la sua espressione e la consapevolezza da parte del paziente.
Il terapeuta, da parte sua, evitando di scivolare in interventi “anti-invidia” troppo diretti deve far sentire al paziente che non è turbato dalla sua invidia e questa modalità terapeutica contribuisce a togliere gran parte della carica distruttiva presente in questo sentimento.
Etchegoyen, a tal proposito, conclude che «è soltanto attraverso la modulazione interpretativa che l’invidia può gradualmente essere spogliata della sua potente capacità distruttiva» (Etchegoyen, Lopez, Rabih 1987, 59).
Lavorare con l’invidia in ambito psicoterapico non è, dunque, semplice e quando gli elementi distruttivi sono prevalenti, si può cercare di individuare anche qualche – pur se minimo – aspetto positivo presenta nell’invidia.
I pazienti esprimono spesso frasi come: «Ho provato invidia per tizio, ma era … un’invidia buona perché lui ha ciò che io desidero …»; affermazioni di questo tipo si accompagnano a un senso di vergogna dal momento che il sentimento invidioso è ritenuto spregevole. La necessità di esprimerlo contiene, tuttavia, un bisogno o un desiderio che avviano un processo di gratificazione consistente nel contattare dentro di sé aspetti, fino ad allora, non riconosciuti.
Hanna Segal (1993, 58) propone la possibilità d’integrare e trasformare il sentimento invidioso; nella posizione depressiva – sostiene la psicoanalista inglese – viene modificato dall’amore e diventa un componente normale della gelosia edipica, trasformandosi poco a poco in sentimenti integrati di rivalità e di emulazione. Ferrari (2005) sottolinea l’aspetto costruttivo presente nell’invidia proponendolo come un sentimento la cui funzione organizzatrice spinge alla ricerca e al riconoscimento delle proprie risorse che, invece di essere percepite all’interno di se stessi, vengono scoperte fuori da sé.
L’invidia, quindi, essendo una caratteristica umana può anche operare come forza motivante e stimolare – attraverso l’emulazione – la persona a progredire e a migliorarsi. Per concludere queste considerazioni sul lavoro psicoterapico con l’invidia, si può riportare una frase di Melanie Klein (1957, 58): «La libertà dall’invidia costituisce la base delle risorse interiori e dell’adattabilità che si notano in quelle persone che, anche dopo  gravi difficoltà e sofferenze psichiche, riacquistano la pace dello spirito. Un atteggiamento di questo genere, in cui vi è gratitudine per i piaceri del passato e gioia per quanto il presente può dare, si manifesta nella serenità».

 

Conclusioni

Non una, quindi, ma numerose sono le invidie e tutte insieme realizzano un costrutto teorico complesso e difficile da riconoscere.
Per concludere, si potrebbe dire che l’invidia continua a prosperare nella terra di mezzo tra desiderio e godimento, tra risentimento e rancore, laddove prende forma il teatro delle passioni umane magnificamente descritto da Shakespeare e che, non a caso, è chiamato "teatro dell’invidia" da Girard (1990). Quest’ultimo afferma che «per desiderare veramente, noi dobbiamo ricorrere agli esseri umani che ci circondano, dobbiamo prendere in prestito i loro desideri».
Possiamo chiederci se abbiamo davvero bisogno di ciò che invidiamo. Per la teoria kleiniana la risposta è si, l’invidia è questione di vita o di morte. Per Lacan, ma anche per Bion, la risposta è no, non invidiamo ciò di cui abbiamo davvero bisogno, bensì ciò di cui crediamo di aver bisogno nel momento che lo vediamo desiderare dall’altro. L’invidioso non desidera qualcosa che l’altro possiede in sé, quanto piuttosto – incontrando il pieno di desiderio dell’altro – fa i conti col suo proprio vuoto di desiderio. Ma proprio in questo movimento interno poggia la funzione costruttiva dell’invidia: dal momento che la si prova, essa dispone già dello spazio mentale sufficiente al proprio superamento. Dov’è che l’invidia è assente? Laddove l’elaborazione simbolica non c’è o è difettosa. È qui che emerge il godimento immaginario, è a questo punto che il desiderio sfonda il limite del godimento e si converte nel suo contrario, in perversione e in desiderio di morte.

Possiamo concludere con degli interrogativi su chi subisce l’invidia dell’altro che potrebbero portare ad approfondire la tematica dell’invidia. Cosa prova l’analista quando un paziente invidia le sue capacità? Cosa comporta per il supervisore il sentirsi investito dall’invidia del candidato o del gruppo? Cosa sente un figlio quando avverte l’invidia di un genitore?
Tutte queste domande, come è ovvio, possono essere riformulate invertendone i termini.
Nel momento in cui le invidie sono riconosciute, rimane il problema di riuscire a trattarle e a prevenirne gli effetti distruttivi. Numerosi economisti e anche qualche matematico (Brams, Taylor 1995, 9-18), hanno perfezionato metodologie definite envy- free basate su criteri equidistributivi che dovrebbero risolvere gli aspetti distruttivi del sentimento invidioso.
Perché allora l’invidia non è stata sconfitta?
C’è un livello narcisistico “subconfusionale”, nella mente umana, in base al quale gli altri non sono individui realmente separati da noi e diversi da noi, ma sono piuttosto “parte di noi” o “altri-noi stessi”, rappresentanti narcisistico/speculari di noi, replicanti che al momento del dunque non creeranno problemi (Bolognini 2010). Questo livello di funzionamento – sottolinea Bolognini – permette di ridurre la fastidiosa percezione del non-Sé e dunque rassicura gli individui sulla centralità, importanza e sovranità del proprio Sé rispetto al resto del mondo.
È questo livello che entra in conflitto con l’efficacia del dispositivo distributivo legato alle metodologie envy-free e di altri sistemi che hanno cercato di modificare questo sentimento.
Parlare di invidia o di invidie non consente, per il momento, una conclusione definitiva, ma solo alcune considerazioni e l’auspicio che nuove ricerche approfondiscano ulteriormente il funzionamento di questo affascinante modo di funzionare della nostra mente.


Bion definisce “capacità negativa” quella modalità di pensiero “insatura” e aperta al nuovo, interessata a ciò che manca piuttosto che a quello che c’è in quanto capacità di tollerare l’ansia di non sapere e il dolore di non capire.

 

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