Il contesto attuale, che ci pone davanti agli effetti distruttivi di un ulteriore intensificarsi della violenza, non può non interrogare la nostra disciplina e il nostro operare, non solo come analisti ma come cittadine e cittadini del mondo.
Il tema del Congresso ci chiama a riflettere sulla complessa e per molti versi drammatica intersezione di vissuti personali e vicende collettive e sull’etica del nostro operare in direzione del “governare la violenza e preservare la speranza”.
Freud s’interroga fin dalle origini sul conflitto intrapsichico e interpsichico ma è nel Disagio della Civiltà del ’29 che tale questione diventa oggetto specifico di disamina. Misurando la distanza che ci separa dal contesto storico-culturale in cui è stato prodotto, per la ‘diagnosi’ che contiene, gli strumenti che offre, gli interrogativi che lascia aperti, questo ‘testo’ resta una chiave di lettura per provare a identificare i tratti che rendono specifico il disagio del nostro tempo; per provare a pensarne gli effetti sul lavoro della cura, sull’esperienza di ascolto dei nostri pazienti e di noi stessi.
La violenza come effetto della mancata risoluzione del conflitto pulsionale è un tragico tema a cui l’umanità continua a volgere le spalle.
L’esperienza storica non è stata utile a elaborare i fantasmi frutto della non elaborazione collettiva del passato
È dentro questo orizzonte, questa prospettiva inaugurato dal Disagio che, tra i tanti contributi di autori contemporanei, quelli di Silvia Amati Sas e Mariano Horenstein – rispettivamente, sulle nozioni di “nucleo ambiguo” e “adattamento a qualunque cosa”, e sulla “sparizione senza tracce” e “la zona tra la vita e la morte” - ci è parso offrissero bussole preziose per orientarci in questo territorio così complesso e accidentato, consentendoci di delineare aree di riflessione, di mettere a fuoco questioni e domande sulla posizione e funzione dello psicoanalista in questi tempi così controversi.
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