Stefano Caracciolo. Lo stupore al cinema: “Stay – Nel labirinto della mente”
‘I film sono trappole con cui catturare la preda’
‘I film sono macchine per influenzare la gente’
(Alfred Hitchcock)
La proiezione di fotografie in rapida successione, ingannando occhio e cervello nel creare un ‘falso movimento’, si è rivelata un ottimo sistema per provare ‘artificialmente’ emozioni, che sono comunque, nell’ambiente naturale, un meccanismo ‘naturale’ di adattamento di ogni essere senziente. Il cinema attira gli spettatori perché al cinema si possono provare emozioni, anche quelle che vorresti provare ma non puoi o quelle che temi di provare e lì puoi accettarle perché sai che non ti sta succedendo davvero.
Le emozioni, quindi, colorano le storie del cinema[1], dal lato del narratore che le inventa – reinventa? – volta per volta, e quindi mediante le storie si provano emozioni, dal lato dello spettatore. Questo meccanismo è il motore del cinema e del suo mercato, ed è il motivo essenziale per cui vedere un film a puro scopo di ‘divertimento’ è già di per sé un potente mezzo di apprendimento, nel senso del ‘social modeling’ di Albert Bandura. Il comportamento viene infatti ispirato e influenzato dalle storie ‘esemplari’, e viceversa, nell’altro senso, le storie ‘inventate’ del cinema sono quasi sempre ispirate da vere storie di persone realmente esistite. Questo gioco di rimandi reciproci è chiaramente testimoniato dalla presenza dell’avviso (disclaimer), cioè dalla dichiarazione che nella maggior parte dei film precisa:
Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistite o esistenti è puramente casuale.
L’avviso tenta – senza poterci davvero riuscire - di negare un elemento costante di ogni storia portata sullo schermo del cinema: il fatto che, al contrario, sono esattamente i fatti e le persone viste e osservate in prima - o seconda? -persona che spingono sceneggiatori, registi, attori, montatori, tecnici di postproduzione a ritrarre nelle loro opere tutta quella realtà che, in varia misura, stupisce, atterrisce, entusiasma, rattrista, sconcerta, e, in una parola, diverte. Proprio per questo motivo chi ama il cinema viene catturato nel seguire vicende che sono - o per lo meno appaiono - vere anche si tratta unicamente di luci ed ombre su uno schermo bianco.
L’emozione primaria, secondo la ormai classica classificazione di Plutchik, che meglio caratterizza lo spettacolo cinematografico è lo stupore. Come è noto, Robert Plutchik nel 1994 ha postulato[2], su base psicobiologica, la esistenza di otto emozioni primarie, a coppie di opposti lungo 4 assi principali: Tristezza/Gioia, Ansia/Aggressività, Attrazione/Repulsione, Sorpresa Positiva (Entusiasmo) e Negativa (Stupore). Come segnalato da Jeanne Hearsch, lo stupore è il motore primo di ogni conoscenza, dalla filosofia alla ricerca scientifica[3].
Al cinema, in effetti, andiamo proprio per stupirci. Se ti annoi, ti alzi e te ne vai. Lo stupore, piacevole o spiacevole, è il motore fondamentale della ‘capture’, il fenomeno che ti tiene avvinto allo schermo, anche se sei in preda ad altre emozioni spiacevoli (ansia, tristezza, rabbia) nella identificazione con i personaggi. Il ‘divertimento’ (That’s Entertainment dicevano a Hollywood) appassisce e scompare se la trama è scontata o già nota, in un fenomeno di assuefazione che nasce dall’apprendimento precedente delle vicende che si stanno seguendo sullo schermo. Proprio da questo elemento nasce il fenomeno dello ‘spoileraggio’, come si definisce con un brutto anglicismo la delusione di scoprire in anticipo lo snodo finale della vicenda. Questo fenomeno si traduce nella perdita di quell’ingenuità che ti impedisce di entrare nel meccanismo illusorio di scoprire, dopo lo stupore iniziale, quale sia la spiegazione, logica, razionale e convincente dell’intera storia, oppure che una spiegazione logica e razionale non c’è affatto. Questo meccanismo, più tipico del giallo o detective story ma non esclusivo di questo genere narrativo, è ben illustrato da E.M.Forster[4]:
“Questo elemento di sorpresa o di mistero - l’elemento poliziesco, come talvolta lo si chiama piuttosto scioccamente – ha molta importanza in una vicenda: lo si suscita creando una sospensione nella sequenza di tempo. Un mistero è una sacca nel tempo. (…) Il mistero è elemento essenziale di qualunque intreccio, né si può apprezzarlo se non adoperando l’intelligenza. (…) A ben apprezzare un mistero bisogna lasciare una parte del cervello ferma e pensarci su, mentre l’altra parte continua a camminare.”
Vediamo allora con un film esemplare come lo stupore sia il motore del vortice che ci prende e ci travolge, avvolti in una ‘nebbia’ emotiva di dubbio e incertezza, ma sempre aggrappati alla speranza che si possa, prima o poi, ‘capire’ quello che è successo o sta per succedere davanti ai nostri occhi.
Stay - Nel labirinto della mente (Or.: Stay). Regia di Marc Forster. Con Ewan McGregor, Ryan Gosling, Naomi Watts, Kate Burton, Bob Hoskins, Elizabeth Reaser, Janeane Garofalo, Bradley D. Wong, 99’, USA 2005.
Marc Forster è un regista atipico ed eclettico. Prima di entrare con film successivi[5] nel mainstream hollywoodiano firma ‘Stay’ assieme allo scrittore e sceneggiatore David Benioff, un visionario e sconcertante affresco che ruota intorno alla enigmatica figura del protagonista Henry, interpretato da Ryan Gosling, contornato da un cast notevole di grandi attori.
La storia inizia così: sul ponte di Brooklyn a New York un veicolo sbanda, poi cappotta, infine si incendia, e ne scende un giovane, Henry, che si siede, con la testa fra le mani, e poi si alza e se ne va con espressione del volto amimica in un silenzio irreale.
Il ponte di Brooklyn è un’icona che ricorrerà ossessivamente in molte delle scene, assumendo gradualmente un significato del tutto simbolico: ponte fra la vita e la morte, la lucidità e la confusione: già nelle dissolvenze fra le scene si percepisce in modo subliminale il faticoso percorso mentale del protagonista dopo l’incidente. Le dissolvenze, infatti, che normalmente suggeriscono allo spettatore che la vicenda prosegue altrove, nel tempo o nello spazio, segnalate di solito da qualche secondo di nero, in questo film non esistono se non in modo virtuale: le scene si susseguono senza preavviso, talora con un volto che si trasforma in un altro, oppure con un cambio improvviso e repentino. Succede così che Sam Forster[6] (Ewan McGregor), psicoterapeuta, vede il ragazzo dell’incidente nel Servizio di Counseling dell’Università, che presenta spunti paranoidi in un colloquio che lo psicoterapeuta fatica a governare, e che Henry interrompe inopinatamente dopo aver preannunciato una grandinata. La macchina da presa inquadra poi la finestra in uno zoom ‘impossibile’ che trova Sam già seduto nel cortile dell’Università in amoroso colloquio con Lila Cullpepper, interpretata da una splendida Naomi Watts, docente alla Accademia di Belle Arti che però apprendiamo subito essere stata una sua ex-paziente dopo aver tentato seriamente il suicidio. E lo si apprende in modo sorprendente, quando una inquadratura ingrandisce i particolari di tre lunghe cicatrici longitudinali su ambedue i polsi. L’incontro viene poi bruscamente interrotto da una violenta grandinata, che dà una ulteriore sferzata allo spettatore, sorpreso dall’avverarsi della profezia di Henry. In seguito si vede che Sam vive con Lila, in un loft newyorkese pieno di grandi tele dipinte in acrilico, e apprendiamo fra le altre cose che Lila è in terapia antidepressiva, prescritta dallo stesso Sam ma da lei bruscamente interrotta senza preavviso.
Fra premonizioni, dejà-vu, incontri con persone che dovrebbero essere morte, Sam non riesce più a distinguere ciò che è reale. Convincere Henry, che annuncia il suicidio per il sabato successivo, a non uccidersi, a "restare" (‘stay’), sembra l'unica soluzione possibile. Nel primo colloquio dello psichiatra si vede chiaramente la reazione paranoide di un paziente psicotico di fronte ad un evento realistico. In un secondo colloquio col paziente psicotico e allucinato lo psichiatra riesce ad agganciare il paziente creando un’alleanza terapeutica. Nella scena successiva Sam va in Psichiatria e discute con un collega sulla gestione della crisi suicidaria, che è comunque un altro dei temi dominanti del film.
La trama successiva, estremamente complessa, include diversi personaggi (in gran parte psichiatri e pazienti) che interagiscono, anche scambiandosi le identità, in un mondo nel quale non vi è una chiara differenza tra chi è vivo e chi è presumibilmente già morto. Lo stesso Henry minaccia più volte il suicidio, vanamente inseguito da Sam che cerca di proteggerlo proponendo un ricovero in psichiatria. Ma Henry appare rassegnato e intenzionato ad emulare il gesto di un grande pittore (immaginario) che è il suo idolo, Tristan Reveur, suicidatosi a 21 anni sul ponte di Brooklyn dopo aver bruciato tutte le sue tele, dichiarando come ultimo suo lascito la frase: il suicidio è la più elegante delle forme d’arte. E in un tentativo di visita domiciliare, come preludio al ricovero, Sam e l’èquipe della psichiatria trovano i muri del suo appartamento completamente coperti da innumerevoli ripetizioni della frase, scritta in bella calligrafia: Forgive me (Perdonatemi).
Fra le altre scene, notevole quella in cui lo psichiatra Sam sta giocando a scacchi con il suo maestro (un grande Bob Hoskins), che è cieco, quando all’improvviso irrompe Henry che riconosce con panico e orrore nell’anziano psicoterapeuta il padre defunto. Da notare che Henry di cognome fa Letham, anagramma di Hamlet, che quindi vede il fantasma del padre, ucciso crudelmente, come il Principe di Danimarca nella omonima tragedia shakespeariana. Innumerevoli scene successive mettono a dura prova i nervi dello spettatore, sempre più sbalordito dopo aver conosciuto la madre di Henry, che si apprende essere morta da tempo, e la ragazza di Henry, Athena, che appare per l’ultima volta sulla scena in una danza macabra in una scuola di danza con un inquietante partner vestito di nero. In almeno due occasioni Henry vede sfilare, proiettate su uno schermo, immagini del suo passato, come in un caleidoscopio frammentato e nostalgico di tutta la sua vita. Il crescendo delle vicende aumenta la reazione di stupore, che sfiora talora l’incredulità, come quando Henry ridona taumaturgicamente la vista all’anziano psichiatra/padre, o nella scena culminante in cui Henry, dopo una colluttazione con Sam, sta per spararsi sul ponte di Brooklyn in una suggestiva e irreale rete di riflessi luminosi.
Alla fine, dopo lo sparo, la scena diviene nuovamente quella dell’incidente iniziale. Sam si china su Henry per verificarne le condizioni, guarda dentro il veicolo e trova i familiari di Henry e la sua ragazza morti nell’urto. Sam cerca di soccorrerlo e di tenerlo sveglio, rassicurandolo: è scoppiata una gomma, non hai responsabilità sull’incidente. Ma il destino è ormai segnato, Henry, dopo aver sussurrato frasi apparentemente sconnesse, muore, e solo a quel punto Sam e Lila, in una straniante scena finale, si rivelano come soccorritori casuali dell’incidente, contornati da sconosciuti astanti in cui si riconoscono tutti i personaggi delle precedenti scene, e si intuisce che tutta la vicenda del film è stata una creazione allucinatoria della mente di Henry mentre si sta spegnendo, e mentre le immagini dei soccorritori gli appaiono ormai sfocate.
Il film è quindi da interpretare, in apparenza, come una contaminazione oniroide e confusa, in parte confabulatoria e frammentata, che produce la mente di un soggetto gravemente ferito, in stato crepuscolare, a partire dagli stimoli casuali che raccoglie, voci e volti della gente intorno a lui, mentre è riverso dopo un tragico incidente d'auto. Henry infatti è riverso sull’asfalto, insanguinato, e non si è mai rialzato dal luogo dell’incidente. “Stay” è quindi anche l’invito del soccorritore al paziente a restare vivo, e non soltanto l’invito dello psichiatra non suicidarsi.
Il film è inoltre disseminato di riferimenti interessanti sul piano psicopatologico: il pittore Tristan Reveur rimanda alla tristezza e al sogno (Reveur = sognatore in francese), il sogno d’amore di Henry con la ragazza è confuso e sovrapposto con la storia d’amore fra Sam e Lila, ambedue oramai impossibili in una atmosfera in cui il senso di colpa per l’incidente e la morte imminente si traducono nei numerosi riferimenti alla morte e al suicidio.
Si tratta però solo ad un livello di interpretazione più immediata e superficiale di una delle più riuscite realizzazioni cinematografiche delle ’near death experiences’, cioè dei resoconti fatti da soggetti sfuggiti alla morte dopo essere stati in condizioni molto gravi.
Infatti c’è un livello di lettura molto più interessante dal punto di vista psicodinamico. Il tema del doppio[7], su cui il regista insiste in modo deliberato nelle scene in cui Henry e Sam compaiono assieme, con un gioco di riprese e di montaggio che induce lo spettatore a smarrirsi ulteriormente. Ambedue giocano con uno stesso anello per la loro compagna, simbolo di un amore doppio e parallelo nelle due coppie, anello che Henry dopo l’incidente continua a tenere stretto in mano mentre chiede a Lila, evidentemente confuso nei suoi ultimi momenti di parziale lucidità, se vuole sposarlo.
La vicenda di Henry è inoltre intrisa di un bruciante senso di colpa edipico di mancata elaborazione del lutto per la morte del padre e rimanda al desiderio di riparazione (‘forgive me’) reso nella sua impossibile realizzazione dal momento in cui immagina di potergli restituire la vista, in uno scambio ulteriore fra il ’padre-mentore’ di Sam ed il proprio padre deceduto per sua colpa. E così anche il tema del rapporto fra Sam e Lila, se irreale dal punto di vista del principio di realtà, diviene un altro simbolo della possibilità di restituire la vita a chi è ormai destinato alla morte, come Lila trovata esanime da Sam nella vasca da bagno con due lamette da barba, una di riserva per essere sicura di portare a termine il suo progetto di morte, e poi curata e recuperata ad una nuova vita dallo stesso Sam.
Ed è proprio nella vicenda fra Sam e Lila che si legge l’estremo e irreale tentativo, ancora più sorprendente, di recuperare le speranze di vita, all’insegna dell’amore erotico che Henry aveva immaginato vanamente per sé. Nell’ultimissima scena del film infatti i due, che in realtà (ma quale realtà?) non si conoscono, si salutano, si voltano le spalle e poi… Sam la richiama per ringraziarla dell’aiuto, e Lila, ancora visibilmente sconvolta dopo la morte di Henry, gli dice che nessuno le aveva mai chiesto prima di sposarla. In quel momento rivediamo, in sequenze frammentarie e rapidissime, alcuni flash sulla storia d’amore immaginata da Henry agonizzante, che però sembrano colpire Sam tanto da indurlo ad invitarla a prendere un caffè assieme, da qualche parte. Gli autori giocano un’altra volta con le nostre emozioni di spettatori sulla base del puro principio del piacere, accantonando la questione di come sia possibile che Sam ‘ricordi’ quelle scene se tutto è stato immaginato da Henry, ormai spento. E mentre la risposta di Lila (“sì, mi piacerebbe”) chiude definitivamente i dialoghi del film, disegnando un irreale ‘happy ending’, il ponte di Brooklyn, testimone muto di tutte le vicende, vede la barella di Henry, con il volto ormai irrimediabilmente coperto, salire sull’ambulanza per il suo triste ultimo viaggio…
[1] E non soltanto al cinema… cfr. Zunshine L.: Why We Read Fiction. Theory of Mind and the Novel, Ohio State Univ. Press 2006, oppure Gottschall J. & Wilson D.S. (Eds.) The Literary Animal, NW Univ.Press 2005.
[2] Plutchik R.: Psicologia e Biologia delle Emozioni, Boringhieri 1995 (Or.:1994)
[3] Hersch J.: Storia della Filosofia come Stupore, Bruno Mondadori, 2002 (or.:2000)
[4] Forster E.M.: Aspects of the Novel, Mariner Books. (1956)
[5] Per una sommaria filmografia: Loungers (1996); Everything Put Together (Tutto sommato) (Everything Put Together) (2000); Monster's Ball - L'ombra della vita (Monster's Ball) (2001); Neverland - Un sogno per la vita (Finding Neverland) (2004);Stay - Nel labirinto della mente (Stay) (2005); Vero come la finzione (Stranger Than Fiction) (2006); Il cacciatore di aquiloni (The Kite Runner) (2007); Quantum of Solace (2008); Machine Gun Preacher (2011); World War Z (2013); Chiudi gli occhi - All I See Is You (All I See Is You) (2016); Ritorno al Bosco dei 100 Acri (Christopher Robin) (2018).
[6] Possiamo credere che sia un caso se lo psicoterapeuta ha lo stesso cognome del regista? Il ‘dentro’ e ‘fuori’ della narrazione è un altro degli innumerevoli ‘leitmotiv’ dell’intera pellicola.
[7] Cfr. Rank O., Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Sugarco, 1994. Rank parte da numerosi riferimenti letterari ma anche, curiosamente, dall’analisi di un film: “Lo Studente di Praga”, film muto girato da Stellan Rye nel 1913.