ADELE MAUGERI. EDITORIALE DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2024
ADELE MAUGERI. EDITORIALE DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA N. 1/2024
Adele Maugeri. Editoriale di Psicoterapia Psicoanalitica n. 1/2024 - "Speranza e Riparazione"
ADELE MAUGERI*
Il numero 1/2024 di Psicoterapia Psicoanalitica propone il tema “Speranza e Riparazione”, sentimenti a cui vogliamo rivolgere attenzione e riflessione a fronte di un umore tragico che accompagna lo stato sociale ed etico dell’attuale periodo storico, in cui vediamo la messa in crisi dei valori fondanti del pensiero occidentale e della stessa psicoanalisi, che ci hanno fatto da guida fin qui.
La speranza a volte si presenta come espressione di un rifugio ultimo, per resistere nelle situazioni più estreme, garantendo la sopravvivenza dell’individuo e spesso dei gruppi sociali, riconoscibile nel sentimento di attesa che qualcosa di nuovo possa giungere, ma che emerge anche con la capacità di fare spazio al desiderio, attivando la possibilità di un cambiamento.
La speranza quindi nel suo aspetto di difesa, ma anche di spinta ad esistere, movimento-non movimento di un contenuto emotivo che chiede di essere custodito da un contenitore capace di resistere, anche nella minaccia estrema. Fiduciosa attesa di un bene che quanto più è desiderato tanto più può attivare timore, paura o terrore annichilente quando la sua realizzazione manca. Un sentimento che, come ci dice Bion in un suo scritto dei Seminari clinici (1989), possiamo riconoscere nella clinica, quando guida il paziente nella ricerca di un analista e che poi lo fa tornare ogni volta in seduta. Spesso, in momenti delicati, può non essere ancora chiaro ad entrambi dove stanno andando, e all’analista non resta che cercare di “arrangiarsi alla meno peggio”, nelll’attesa che qualcosa prima o poi emerga. L’analista deve fare come un “atto di fede”, non inquinato da memoria e desiderio, che permetta di sentire che c’è ancora qualcosa di buono e di vitale in attesa di essere accolto.
Riguardo alla riparazione, come dice Klein (1969), se nel processo di cura potranno essere recuperati dei buoni oggetti facendo l’esperienza di una buona relazione, allora si potrà costruire o rafforzare la fiducia, il senso di sicurezza, la vitalità dei propri oggetti interni, il senso riparazione e di gratitudine.
Sentimenti, quelli di cui trattiamo in questo numero, che evocano il rimedio estremo, di sopravvivenza, che prova il soggetto quando subisce traumi, abusi o torture, tali che il senso di esistere debba essere relegato in aree inaccessibili alla coscienza, realizzando un’autotomia di parti del Sé nel tentativo di conservare, congelare, celare, quel senso di vita-non vita, affine a quello che Ferenczi nel “Diario Clinico” (1932) chiama “Orpha” o “Angelo Custode” che preserva dalla morte emotiva e psichica. Per poter avvicinare questi sentimenti dolorosi il soggetto ha bisogno di un altro capace di accogliere, di offrire un ascolto profondo e autentico, per essere riconosciuto, raggiunto in un movimento circolare che richiede una reciprocità nella relazione.
Dobbiamo poter scorgere la speranza anche in quella tendenza antisociale con cui si presentano oggi i giovani, che così chiedono attenzione, esprimono il bisogno di essere visti, di esserci seppur nello scontro, nell’espressione di una violenza che li rende visibili, per evitare la caduta nell’indifferenza. Una generazione a cui viene tolta la speranza, la fiducia verso il futuro, immersi in un tempo che scorre troppo veloce, che viaggia verso esperienze potenzialmente e minacciosamente catastrofiche, in cui l’umano è messo sullo sfondo se non negato.
“Speranza e Riparazione” che siamo chiamati a riconoscere nella dimensione dell’incontro con quei pazienti che esprimono il loro disagio ritirandosi in uno spazio privato inteso come “terra di mezzo” dal quale il soggetto può emergere se incontra un analista capace di “stare”, di “essere con”, anche in una dimensione ibrida e sconosciuta. Possiamo anche dire con Winnicott (1971) che la speranza ha bisogno di un’area di illusione perché possa costruirsi quello spazio potenziale in cui realtà e fantasia si incontrano e, quando questo non è possibile o non è consentito, emerge l’atto antisociale, al posto di un atto creativo.
Un incontro che deve consentire la promozione di una ricerca per progredire verso una conoscenza che sia rispettosa della vita, di un’area di intimità che si coniuga con un “noi”, espressione di quel legame dell’uno con un Altro che lo riconosce, ne condivide il bisogno di protezione, di esplorazione e per riparare insieme quanto è stato danneggiato o è mancato.
Sentimenti che si attivano e necessitano di uno psicoterapeuta capace di intravedere la speranza che si colloca sullo sfondo di quelle azioni spesso respingenti, oppositive o francamente violente contro se stessi o verso il mondo esterno, che il paziente mostra, agisce e porta nella stanza d’analisi. Si richiede per questo la consapevolezza di non sapere e la tolleranza dell’attesa.
Ripetizioni e azioni che anche nell’espressione del pensiero psicotico, rappresentano il bisogno, la possibilità, che l’ambiente questa volta riesca nella sua funzione facilitante lo sviluppo e la crescita. Un ambiente capace di offrire quella spinta vitale che, collegata a quanto ci dice Freud in Caducità (1915), porti alla elaborazione del pensiero che qualcosa ci sopravvive, anche quando vengono subite perdite o minacce alla vita stessa, come è accaduto durante la pandemia da Covid-19 o attualmente, con le guerre in corso nel mondo.
Una speranza che è conquista vitale e possibilità di riparazione, quando si riconosce nella forza di un Inconscio individuale↔gruppale capace di re-integrare e trasformare in modo creativo anche quanto in precedenza è stato scisso e denegato, sia sul piano individuale che sociale.
Un tema che abbiamo proposto per condividere pensieri, ricerche, esperienze teorico-cliniche che hanno permesso agli autori degli articoli di questo numero di contribuire come comunità psicoanalitica a una riflessione sulla condizione sociale ed emotiva attuale.
Ma cosa succede quando non riusciamo a rintracciare la speranza e la possibilità di riparazione né sul piano individuale né sociale? Come possono ritirarsi, questi sentimenti, così tanto da divenire invisibili ai più, quali dis-per-azioni ricorrono, cosa lo può aver provocato e a quali conseguenze si può arrivare?
Un nuovo malessere che può essere riconosciuto in quelle dimen- sioni di vita-non vita e morte-non morte che accompagnano l’umore di fondo di certi quadri melanconici, nella solitudine dei giovani “ritirati”, nella disillusione che accompagna l’impossibilità di mantenere uno spazio di desiderio. Movimenti che vanno verso la coartazione delle emozioni, dei sentimenti e un appiattimento della dimensione spazio-temporale, che non permette di riconoscersi nella condizione umana di essere nel mondo con una direzione, una meta, in contatto con quanto accade dentro e fuori di sé, che spinge a non essere o ad essere solo quanto basta per la sopravvivenza, in una disumanizzazione del Sé per non soffrire il dolore, né possibili stati di benessere. Tutto si appiattisce e diventa indifferenziato e indifferente.
Un tema, quello di questo numero, che vuole essere un richiamo alla pensabilità condivisa per cogliere il malessere quando si presenta nelle nostre stanze d’analisi, che si insinua in movimenti culturali e identificazioni dei giovani che non trovano obiettivi vitali né un senso emozionale alle loro scelte ed esperienze. Vediamo soggetti immersi in una società che propone contenuti mortiferi e pieni di avidità narcisistica in cui l’avere viene anteposto all’essere.
Da più parti questa sofferenza viene espressa in modo evidente già da molto tempo e la psicoanalisi non può non interrogarsi su cosa accade quando la incontriamo nell’altro e a volte in noi stessi, quando il nostro ascolto viene messo in scacco, quando qualcosa non arriva ad essere riconosciuto, ma che è proprio lì, davanti a noi, nel presentarsi del paziente ogni volta o quando manca alla seduta, quando sono forzati i limiti del setting, i nostri stessi limiti. Siamo costantemente convocati ad interrogarci, ascoltando l’altro, noi stessi e quanto accade nella relazione terapeutica. Dobbiamo poter tollerare la sfumatura dei confini senza per questo cancellarli o irrigidirli.
Questo numero della Rivista propone una nuova Sezione dedicata all’intervista della Redazione ad un autore che amplia il vertice psicoanalitico del tema offrendo una riflessione, uno scambio e un confronto di pensieri fecondi circa quanto stiamo esperendo sul piano individuale, nel nostro lavoro di terapeuti, ma anche a livello sociale, culturale e politico.
Un’altra Sezione inedita ospita le relazioni presentate per la celebrazione del Trentennale di Psicoterapia Psicoanalitica. Quest’ultima è stata una scelta della Redazione perché resti traccia di questo evento così significativo per celebrare lo sviluppo storico, sociale e scientifico della Rivista e della SIPP.
In Lector in fabula Claudio Neri con “La speranza come atteggiamento sentimentale e come forza che opera nella realtà” ci offre in modo generoso e originale tratti della speranza con concetti, esempi e citazioni incisive che stimolano il pensare. Interessante il suo richiamo al principio di speranza secondo Bloch, connessa alla coscienza anti- cipante dell’uomo ed al concetto di “non ancora” come “alla verità più profonda che dà valore alla speranza”. Altro aspetto di riflessione quello relativo a quando questo sentimento può essere annullato da un Super Io crudele e persecutorio, depositario della pulsione di autodistruzione, che schiaccia l’Io e ne prende il posto. Un passo avanti per comprendere quei soggetti che sembra non sperino più, e si abbandonano al ritiro e alla passività.
Un invito allo psicoanalista perché possa ascoltare il “suono del terrore” che accompagna il sorgere della speranza, aiutando il paziente a farvi fronte.
Nella Sezione Saggi troviamo tre articoli molto ricchi e significativi che ci offrono vertici teorico clinici ed esperienziali molto diversi.
Giuseppe Riefolo con “La domanda concreta e la soluzione homelessness” ci fa entrare in contesti in cui esperienze e interventi estremi permettono di operare senza arretrare sul versante psicoanalitico. Un contributo attento, sensibile e significativo che ci mostra come aspetti dissociativi ed eventi traumatici, in situazioni gravemente compromesse per essere affrontati, chiedono una disposizione del pensiero che si colloca su un assetto concreto. Ci offre un’esperienza clinica che mostra come può essere riparata la funzione del pensiero a partire dall’azione/cosa, una dimensione concreta e capace di costruire uno spessore psichico emozionale.
Il tema della speranza e della riparazione, anche se mai esplicitato, impregna di sé lo scritto, in un’esperienza clinica capace di legare e riparare esperienze traumatiche disgreganti. Operazioni concrete che hanno la funzione di riparare il tessuto dei significati e delle rappresentazioni. Il lavoro recupera il concetto di dissociation di Janet e del primo Freud, con gli oggetti, le strutture, i nodi di una rete di interventi, capaci di operare in senso simbolico. Oggetti che debbono essere riconosciuti nella loro dimensione relazionale e rispondente a bisogni primari dei soggetti umani di cui si prende cura, in un’assun- zione di responsabilità molto elevata.
Annalisa Curti in “Grandi speranze: sulle passioni d’attesa dell’ipermodernismo” apre un focus su un aspetto distopico in cui la speranza può precipitare quando diventa attesa infinita, sospensione del tempo. Una dinamica che, nella lotta tra Eros e Thanatos, principio del piacere e principio di realtà, precipita verso il principio di morte, declinandosi in una passivizzazione e una indifferenziazione che non lascia spazio al desiderio, alla memoria, ai ricordi. Un lato oscuro della speranza che riconosciamo nei casi clinici di cui ci parla, legando le passioni di attesa (Spes e Metus, Speranza e Timore), impastate tra loro in un disequilibrio riconoscibile nei tratti della società ipermoderna che dalla negazione dei limiti va verso una iperaccelerazione, un sovraccarico di stimoli che invade e colonizza l’individuo dandogli l’illusione di riuscire a controllare tutto. Una speranza che alimenta le aspettative narcisistiche della società, diventando paludi per le nuove generazioni e conduce verso un blocco della possibile soggettivazione.
Luigi Antonio Perrotta nel suo lavoro “Ripetere, sperare, riparare. La posizione dell’analista nella sofferenza del paziente: il caso di Touka” ci propone, attraverso l’analisi di un caso clinico, l’approfondimento di come gli elementi della speranza e della riparazione si collochino nell’intima relazione analista-paziente, nella costante dialettica transfert-controtransfert. Un analista che, in una situazione molto complessa, offre un credito di funzioni psichiche per alimentare quella speranza che può scardinare le ripetizioni mortifere della paziente. Un caso clinico che ci fa entrare nel processo analitico del percorso psicoterapico, trasmettendo una forza che vivifica, anche quando si sperimentano pesanti quote di dolore e incertezza. In tale modo di essere nell’esperienza psicoanalitica l’analista riesce a resistere nell’essere presente con la paziente in un limite e al limite, sopportando vissuti di preoccupazione, senso del pericolo, responsabilità, rabbia e con la capacità di custodire dentro di sé un autentico sentimento di speranza che infine permette di avviare un processo di riparazione.
Segue l’Intervista: “La redazione dialoga con Miguel Benasayag” in cui i componenti della Redazione, conoscendo il suo interesse e la sua esperienza personale, clinica e sociale sui temi che riguardano il malessere dell’individuo e della società che stiamo vivendo, hanno realizzato un incontro online con l’autore. Un’esperienza e un incontro che ha voluto promuovere una riflessione, la ricerca di un contributo per comprendere come la psicoanalisi possa oggi alimentare il senso di una speranza e di una riparazione. Un dialogo intenso, aperto e ricco di stimoli, che spazia dalla messa a fuoco della crisi della società moderna alla possibilità di una sfida in cui siamo storicamente convocati e impegnati per sviluppare l’immaginazione e la protezione della vita, permettendoci di tollerare di essere in una condizione di insicurezza e di caos, attivando per questo uno stato di “intranquillità” creativa.
La Sezione Scorci accoglie due articoli.
Andrea Giovannoni con “Sandor Ferenczi: un antesignano della moderna psichiatria” sviluppa un’ampia discussione teorica che attinge ai costrutti della psicoanalisi ferencziana e alla corrente interpersonale, applicati ad un interessante caso clinico in cui emerge con chiarezza l’uso degli strumenti del tatto, dell’empatia e la proposizione del terapeuta come oggetto buono che pazientemente resiste agli attacchi sadici del paziente. Particolarmente in un sogno il paziente esprime il sentimento della speranza e del desiderio, quello di appartenere ad un gruppo sociale (il gruppo dei pazienti tenuto dal suo terapeuta). Un interessante contributo a come la psicoanalisi e l’esperienza clinica di Ferenczi possa incidere sul modo di lavorare nell’ambito dei servizi della psichiatria.
Maria Mosca con “La speranza, tra ideali e realtà” mostra l’importanza di non perdere mai la speranza, neanche di fronte a casi clinici difficili e a debolezze anche occasionali dell’analista. Una relazione analitica in cui l’intento è nella possibilità di costruire un rapporto di fiducia e di reciprocità. Sullo sfondo, come in filigrana, un intreccio con quanto soffriamo nella attuale società pervertita e per questo la psicoanalisi si interroga e si rivolge al concetto di speranza, proprio per non perdere la fiducia e poter continuare a pensare e a prendersi cura.
Segue la Sezione Intersezioni con due articoli, che affrontano i temi della speranza e della riparazione da due differenti vertici.
Amedeo Boros e Rossana Betti in “Persone in silenzio, corpi che parlano, linguaggi da interpretare. Uno sguardo antropologico sulle cornici culturali dei Disturbi dell’Alimentazione” affrontano il tema della speranza e riparazione nella clinica, considerandolo dal punto di vista dei pazienti con Disturbi dell’Alimentazione tramite l’approccio antropologico-interpretativo, in un l’intreccio tra cultura e alimentazione. Il tema è indagato attraverso interviste a varie figure professionali impegnate nel campo, con un’attenzione al corpo sociale e alla cura. Un lavoro che mette in primo piano un sistema di relazioni fortemente condizionate da norme culturali che designano e definiscono il concetto di “normalità”.
Gabriele Geminiani con “Io vivo fra le cose” ci fa entrare nel vivo dei sentimenti di chi ha saputo resistere trovando un proprio modo per sopravvivere. Ci mostra quel limite estremo di un’esperienza personale che, facendo appello a un residuo di speranza interna, ha potuto cercare nelle cose qualcosa di Sé. La comunicazione del proprio dolore esistenziale, per la dimensione tragica dell’esistenza, senza reticenze, diventa parte integrante della sua poetica artistica per gli scarti, gli oggetti perduti-ritrovati. Un pensiero che si basa su un’esperienza estetica della sofferenza, come antidoto contro il nichilismo della società fluida. Una narrazione che conduce verso la comprensione della sua arte e della funzione di riparazione condensata nel salvataggio di oggetti, di ciò che può essere dimenticato o perduto, ma poi ritrovato, riparato e vivificato. Uno scritto delicato, sensibile e originale che ci mostra un lavoro psichico che segue un percorso soggettivo e privato di riparazione dall’interno.
Nella Sezione Istituzioni Sergio Zorzetto con “Nuove osservazioni sulla clinica in regime di frontiera… a partire dalla pratica etnopsi- cologica nel Servizio di Salute Mentale di Prato” ci offre un articolo intenso e significativo, con la particolare visuale relativa all’esperienza clinica nel “regime di frontiera” nell’ambito di un Servizio di Salute Mentale. Un lavoro che mostra uno spaccato drammatico in cui si gioca il limite tra accoglimento e respingimento di popoli in fuga. Popoli e persone appartenenti a culture diverse, per i quali i gesti e le parole chiedono di essere riconosciuti nella loro diversità di significato. Interventi clinici che, accanto al modello psicoanalitico, si appoggiano all’antropologia e ad un’epistemologia della complessità. In questi casi la disposizione dei setting richiede modifiche ampie, divenendo gruppale, multilinguistica e multidisciplinare. Un’esperienza che vede diverse istituzioni coinvolte, in cui il tema della speranza e della riparazione sottende tutto il lavoro.
La Sezione Trentennale della Rivista Psicoterapia Psicoanalitica. Trent’anni di ricerca clinico-tecnico-teorica accoglie le relazioni presentate nella giornata della celebrazione.
La prima relazione quella di Guglielmo Capogrossi, primo Direttore della Rivista, ricevuta antecedentemente alla sua scomparsa e letta in apertura dell’evento.
Successivamente vengono riportati gli interventi di: Silvia Grasso, Presidente della SIPP con “Introduzione ai lavori e saluti”; Anna Carla Aufiero con “Tessere nodi, legare fili: la Rivista come rete”; Giovanni Starace con “Alle origini di Psicoterapia Psicoanalitica”; Adriana Gagliardi con “Passaggi di scrittura”; Adelina Maugeri con “La Rivista come crogiuolo di pensieri”; Rosita Lappi con “Lector e scriptor in fabula”.
Chiude la sezione l’intervento di Stefano Bolognini, che è stato gradito ospite della giornata celebrativa con “Lavori in corso: la Rivista come ‘pensamento’ di una ricerca teorico-clinica societaria”.
La Sezione Recensioni presenta due libri: Patrizia Gallo per Tito Baldini “Il mondo salvato dai ragazzi indifferenti, dialoghi sul controtransfert” e Maria Grazia Minetti per Lucio Russo “L’indifferenza dell’anima”.
Per la Rubrica In memoria di, Rosa Romano Toscani ricorda Guglielmo Capogrossi “Un gentiluomo d’altri tempi”.
Auguro una buona lettura.
* Socio ordinario SIPP con funzioni di training, Direttore di Psicoterapia Psicoanalitica, Via Tuscolana, 1478, Roma (RM).
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.